Donne in lutto. La tragedia di Barletta

'Tina, Matilde, Giovanna, Antonella. Schiacciate e sepolte dal crollo del palazzo. Uno squarcio sul lavoro in Italia. E'' il nostro 8 marzo. Di Silvia Garambois'

Donne in lutto. La tragedia di Barletta
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5 Ottobre 2011 - 23.52


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Ora è per tutti “la strage delle operaie”. Ma che non sia dimenticato questo 3 ottobre maledetto in cui delle operaie tessili, al lavoro in un seminterrato fatiscente anche per 12-14 ore al giorno (e per 3 euro e 95 centesimi all’ora), sono rimaste schiacciate e sepolte dal crollo del palazzo. E’ il nostro 8 marzo: terribile come quel giorno del 1908 in cui a New York la protesta delle operaie della Cotton finì in un rogo mortale. Le stesse, un secolo dopo, le condizioni di lavoro: senza tutele, senza garanzie, in locali arrangiati.

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Tina, Matilde, Giovanna, Antonella. E con loro la piccola Maria, figlia dei proprietari.

La tragedia di Barletta apre uno squarcio sul lavoro in Italia di fronte al quale nessuno può voltare il capo. E di più sul lavoro delle donne. Un laboratorio clandestino, come mille e mille ce ne sono nel nostro Paese: ma non bisogna andare a cercare solo tra le comunità straniere per scoprire che nei sottoscala, nelle soffitte, le macchine da cucire sono in funzione giorno e notte, e i lavoratori gomito a gomito non possono perdere tempo, devono macinare stoffa, punti, ricami; cucire scarpe e borse…

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Uno stipendio da fame, al nero: ma le famiglie delle vittime non si indignano, quei 400-600 euro al mese servono a pagare il mutuo, la benzina, anche il pane.
Nessuna tutela, per oggi e per il futuro: non c’è Inps per chi lavora al nero, non c’è malattia, non c’è pensione, non c’è maternità.

L’opificio di Barletta aveva una “gestione familiare”, quattro, cinque lavoranti al giorno: quando il proprietario trovava una commessa – confezionare magliette, tute da ginnastica – si faceva notte per consegnarla in tempo. Lui in cambio pagava una tredicesima alle sue operaie. “Magari non erano proprio assunte, ma il lavoro da queste parti serve, mica ci si sputa sopra”, dicono adesso i parenti delle giovani donne, senza acrimonia.

Quel seminterrato non è diverso da tanti altri, dove il lavoro è a cottimo e la paga da fame, dove la sicurezza costa troppo per metterla in conto. E non da oggi, non dai giorni della crisi del credito internazionale, delle Borse che crollano, degli edge found e dei mutui subprime: quelle sono notizie che si sentono alla radio mentre la macchina da cucire corre, notizie di cui si capisce poco, quasi nulla.

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Il lavoro nero nel nostro Paese, quel “sommerso” che secondo gli economisti vale un sesto del PIL, non può essere liquidato con la caccia al colpevole del sottoscala: un tessuto economico parallelo, fuori dalla legalità, ai margini della storia delle conquiste operaie, sfruttato – ben prima che dai “padroncini” – dalle grandi aziende che lucrano su confezioni a basso-bassissimo costo. Sempre più basso.

Tina, Matilde, Giovanna, Antonella. Per dar loro giustizia, bisogna – intanto – non dimenticare.

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