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Ci sono molti modi per rendere omaggio alla poeta Antonia Pozzi nel centenario della nascita, avvenuta a Milano il 13 febbraio 1912. Si può, e si deve, cercare di risarcire la verità della sua avventura umana attraverso varie iniziative. Il comune di Milano, ad esempio, organizza nei prossimi giorni una mostra, un incontro, uno spettacolo ed una proiezione, presso il teatro Franco Parenti, in un momento in cui “ancora molte delle eccellenze femminili faticano a trovare spazio in questa città”, come affermato dall’assessore alla cultura Stefano Boeri.
Qui sembra opportuno ricordare Antonia Pozzi, morta suicida nel 1938 a ventisei anni, non solo per la sua opera ed il talento poetico, riconosciuto dopo la sua morte da Eugenio Montale e Thomas Stearns Eliot, ma anche perché è una delle tante donne vittime di violenza, che molto spesso è morale, prima che fisica.
“Fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesia”, ha scritto l’italianista Maria Corti che la conobbe all’Università. “Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare”. Una violenza che va oltre la morte e si accanisce sulla memoria. La famiglia nega le circostanze del suicidio, provocato da barbiturici. Il suo corpo viene trovato nei campi nei pressi dell’abbazia di Chiaravalle. Il padre Roberto Pozzi, un importante avvocato, distrugge il testamento, manipola e censura le poesie, scritte su quaderni e ancora inedite al momento della morte, prima di darle alle stampe nel libro postumo “Parole”.
“Non sai che cosa spietata è la convivenza quotidiana – scrive Antonia Pozzi all’amico poeta Vittorio Sereni nel 1935 – quell’essere giorno per giorno di fronte, a misurare le proprie diversità, sul metro delle piccole realtà materiali, come sminuzza i sentimenti, come seppellisce i concetti idealizzati”. Nessuna comprensione in famiglia per questa ragazza diversa e sensibile, che ama la natura e la fotografia, fa escursioni in montagna e scrive diari e poesie. Nella lettera disperata all’amico poeta rivela che il fratello vuole fare di lei una vera donna, per ciò che questo significa in una famiglia religiosa e borghese all’inizio del Novecento. “Io credo che una vera donna non sarò mai, che anzi, cercando malamente di esserlo, finirei col perdere la parte più vera e meno banale di me”.
Nessuna indulgenza per i suoi amori: una breve relazione con il professore di latino e greco al liceo, Antonio Maria Cervi, la cui fine, per gli ostacoli posti dalla famiglia, segna l’inizio della sua depressione; un’amicizia amorosa con una giovane conosciuta all’università mentre frequenta i corsi del professore di estetica Antonio Banfi. Alla violenza familiare si aggiunge quella del clima politico di quegli anni. L’introduzione delle leggi razziali, nel 1938, colpisce alcuni dei suoi amici più cari. La disperazione diventa mortale.
Antonia Pozzi ha cercato con tutta la sua intelligenza di restare aperta alle parole che battono, battono furiosamente alla porta dell’anima. Voleva costruire con la poesia un ponte sottile e saldo e bianco / sulle oscure voragini della terra. Ha avuto la forza di vincere quel silenzio che per secoli ha annientato lo spirito femminile. E’ stata vittima di violenza. Ci lascia in dono le sue parole, un monito a mantenere spalancata quella porta, che per lei si è chiusa troppo presto.
ANTONIA POZZI – [i]La porta che si chiude [/i](1931)
Tu lo vedi, sorella: io sono stanca,
stanca, logora, scossa,
come il pilastro d”un cancello angusto
al limitare d”un immenso cortile;
come un vecchio pilastro
che per tutta la vita
sia stato diga all”irruente fuga
d”una folla rinchiusa.
Oh, le parole prigioniere
che battono battono
furiosamente
alla porta dell”anima
e la porta dell”anima
che a palmo a palmo
spietatamente
si chiude!
Ed ogni giorno il varco si stringe
ed ogni giorno l”assalto è più duro.
E l”ultimo giorno
– io lo so –
l”ultimo giorno
quando un”unica lama di luce
pioverà dall”estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l”onda mostruosa,
l”urto tremendo,
l”urlo mortale
delle parole non nate
verso l”ultimo sogno di sole.
E poi,
dietro la porta per sempre chiusa,
sarà la notte intera,
la frescura,
il silenzio.
E poi,
con le labbra serrate,
con gli occhi aperti
sull”arcano cielo dell”ombra,
sarà
– tu lo sai –
la pace.
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