Alla fine è successo, perché questo articolo 4 della legge 194 sull’interruzione di gravidanza dà proprio fastidio. Il diritto a non andare più sotto le mani delle mammane a rischio della propria vita, è nullo rispetto alla vita di un embrione che entro l’ottava settimana (termine entro il quale una italiana può interrompere una gravidanza) non arriva neanche al peso di 500 grammi e quindi, qualore non fosse nel corpo della donna e fosse autonomo, morirebbe comunque perché non ha vita propria.
Dà fastidio che una donna possa decidere di abortire in una struttura sanitaria pubblica entro i primi 90 giorni di gravidanza in particolari “circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero per la donna un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito” (art. 4, della legge 194/78). Dà veramente troppo fastidio che una donna abbia il potere di generare o meno, secondo la sua volontà e decisione, dato che questo potere ce l’ha “per natura”. E quindi, oltre all’attacco generale che le donne stanno subendo massicciamente in materia di discriminazione e di violenza in Italia, succede anche che a Spoleto un giudice minorile neghi il diritto ad interrompere la gravidanza a una ragazza di 17 anni che, non volendo mettere al corrente i genitori del suo stato, si è rivolta – come previsto dalla legge e come prassi per le minorenni – al giudice per il consenso. Un caso catapultato sui giornali e il cui esito si ripercuoterà pericolosamente su tutte le donne italiane, in quanto il giudice di Spoleto ha rimandato la sua obiezione di incostituzionalità dell’art. 4 su cui si basava – come normale nel’applicazione della legge e come suo diritto per la legge 194 – la richiesta della ragazza a interrompere la gravidanza, alla Consulta della Corte Costituzionale che il 20 giugno esaminerà la validità dell’art. 4 sulle circostanze che legittimano l’interruzione di gravidanza.
Ma una legge approvata con referendum popolare nel 1978 e ribadita con un altro referendum nel 1981, può essere messa in discussione nel suo impianto con tale modalità? Ma andiamo a vedere. Secondo il giudice che ha chiesto, d’ufficio, la pronuncia della Consulta, l’articolo 4 della legge 194 si porrebbe in contrasto con l’art. 2 della Costituzione, con il diritto fondamentale alla salute dell’individuo (articolo 32 primo comma della Costituzione), gli articoli 11 (cooperazione internazionale) e 117 (diritto all’assistenza sanitaria e ospedaliera), ma soprattutto con una sentenza della Corte di Giustizia europea del 18 ottobre 2011 relativa alla nozione di “embrione umano”. Riguardo gli articoli citati dal giudice della Costituzione italiana, sono alquanto generici: per esempio l’art. 2 recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”; mentre l’art.32 dice “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” (principi che, tra le altre cose, dovrebbero essere applicati alla ragazza in quanto cittadina italiana). Corte Costituzionale che comunque si era già espressa sull’articolo 2 in relazione alla 194 – dicendo che pur ritenendo che “la tutela del concepito ha fondamento costituzionale”, era a in favore dell’interruzione della gravidanza se giustificata da motivi gravi – nel 1975 e cioè prima dell’approvazione della legge 194 (sentenza n. 27 del 18/2/1975).
Ma andiamo a vedere anche cosa dice la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sulla definizione degli “embrioni” a cui il giudice tutelare si richiama. La sentenza del 18 ottobre 2011 n. C-34/10 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea è in realtà una sentenza che riguarda il brevetto di medicinali ricavati da cellule di embrioni umani, nell’ambito di una causa in cui Greenpeace aveva contestato la brevettabilità da parte di un ricercatore tedesco di un procedimento che utilizzava cellule staminali umane “a fini industriali o commerciali”. La Corte federale tedesca si era rivolta alla Corte di Giustizia europea dopo il ricorso del ricercatore contro la sentenza che dichiarava nullo il brevetto.
La Corte di Giustizia ha affermato che “Il corpo umano, nei vari stadi della sua costituzione e del suo sviluppo, nonché la mera scoperta di uno dei suoi elementi, ivi compresa la sequenza o la sequenza parziale di un gene, non possono costituire invenzioni brevettabili” – quindi il corpo umano e si parla di brevetti – , e infine che “sono considerati non brevettabili in particolare le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali”. Per concludere sulla sentenza si legge che “Ai sensi degli artt. 1, n. 1, punto 2, e 2, nn. 1 e 2, dell’ESchG del 13 dicembre 1990, sono sanzionati penalmente la fecondazione artificiale di ovuli per uno scopo diverso dall’induzione di gravidanza della donna da cui provengono, la vendita di embrioni umani concepiti in provetta o prelevati da una donna prima della fine del processo di annidamento nell’utero o la loro cessione, acquisto o utilizzazione per uno scopo che non sia la conservazione degli stessi, nonché lo sviluppo in provetta di embrioni umani per scopi diversi da quello di indurre una gravidanza”. Cioè vieta il commercio di ovuli fecondati e di embrioni, e per far questo definisce che cosa si intende per embrione umano non commerciabile ovvero “l’ovulo umano fecondato, in grado di svilupparsi, sin dalla fusione dei nuclei, nonché qualsiasi altra cellula estratta da un embrione detta «totipotente», vale a dire in grado, in presenza delle altre condizioni necessarie a tal fine, di dividersi e di svilupparsi diventando un individuo”.
E alla richiesta dell’appello sulla qualifica di embrione, si chiarisce che “Quanto al significato da attribuire alla nozione di «embrione umano» prevista all’art. 6, n. 2, lett. c), della direttiva, si deve sottolineare che, sebbene la definizione dell’embrione umano costituisca un tema sociale particolarmente delicato in numerosi Stati membri, contrassegnato dalla diversità dei loro valori e delle loro tradizioni, la Corte non è chiamata, con il presente rinvio pregiudiziale, ad affrontare questioni di natura medica o etica, ma deve limitarsi ad un’interpretazione giuridica delle pertinenti disposizioni della direttiva”. Quindi, ripetiamo, questa sentenza, decide della “esclusione dalla brevettabilità relativa all’utilizzazione di embrioni umani a fini industriali o commerciali” definendo questi come “qualunque ovulo umano fin dalla fecondazione, qualunque ovulo umano non fecondato in cui sia stato impiantato il nucleo di una cellula umana matura e qualunque ovulo umano non fecondato che, attraverso partenogenesi, sia stato indotto a dividersi e a svilupparsi”. Cosa c’entra allora l’interruzione di gravidanza?
Cosa voleva fare la ragazza, brevettare il suo feto? E noi italiane dovremmo mandare all’aria una legge che tutela la nostra salute in base a una sentenza che ragiona sull’utilizzo delle cellule staminali embrionali per fini commerciali e per la brevettazione di un signore tedesco?
Ricordiamo invece qui, e con forza, il diritto della giovane in quanto non solo il rapporto dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) ha reso noto che nel mondo circa 16 milioni di adolescenti, di cui 2 milioni sono sotto i 15 anni, partoriscono ogni anno, mentre altre 3 milioni rischiano la vita con aborti illegali, ma che anche le Nazioni Unite a fine aprile – Commissione su popolazione e sviluppo – hanno adottato una Risoluzione riguardante la salute sessuale e riproduttiva, in cui, tra le altre cose, si ribadisce il diritto delle giovani a decidere sulle questioni relative alla sessualità, “rafforzando l’accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva, compreso quello all’interruzione volontaria di gravidanza che deve avvenire in condizioni di sicurezza, garanzia di riservatezza e rispetto senza alcuna discriminazione o tentativi di coercizione”.