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Samantha, Marcella, Maria Luisa. Chi l’ha viste?

Cristoforetti, Panucci, Pellizzari: tre eccellenze italiane. Occultate da stampa e agenzie sotto spoglie al maschile. Per ricordarci che quei ruoli spettano solo agli uomini…? Di [Adriana Terzo]

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11 Luglio 2012 - 01.01


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‘E’ stata, questa passata, una settimana densa di riconoscimenti e incarichi importanti affidati a donne. Samantha Cristoforetti, in assoluto la prima donna italiana nello spazio, che partirà a novembre del 2014 per una missione di sei mesi a bordo della Stazione spaziale internazionale; Marcella Panucci, nominata a capo della direzione di Confindustria, anche qui nuovo record femminile visto che l’avvocata è la prima donna ad assumere questo incarico nella centenaria storia dell’associazione delle imprese; infine Maria Luisa Pellizzari, ex dirigente all’Anticrimine e medaglia d”oro al merito di servizio, designata a capo del Servizio centrale operativo dopo il terremoto provocato ai piani alti della polizia dalla sentenza della Cassazione per i gravi fatti del G8 di Genova.

Notizie di donne in ruoli di vertice, notizie forti che rompono il grigiore della normalità statistica. Insomma, informazioni ghiotte per chi fa il nostro mestiere perché le donne, si sa, al massimo sono roba per cronaca nera. Eppure, la stampa sembra quasi non essersene accorta. Come mai, ci si chiede? Colpa delle colleghe e dei colleghi disattenti? O di una informazione sempre più parcellizzata e frammentata in mille canali? Diciamo che accanto a queste due plausibili ragioni, secondo noi ce n’è un’altra, più subdola e forse più insidiosa, legata ai termini che vengono usati sui media per raccontare queste figure, queste signore, queste eccellenze. E quali sarebbero questi termini? Parole vuote di senso perché non rappresentative, appiattite al maschile e figlie di una cultura che ancora oggi, e non se ne capisce il motivo, tendono ad occultare la presenza delle donne.

Prendiamo Samantha, 35 anni, carriera fulminante divisa tra due lauree – in Ingegneria meccanica all”università tedesca di Monaco e poi in Scienze aeronautiche all”accademia di Pozzuoli – pilota militare che, va da sé, conosce e parla perfettamente tedesco, inglese, francese e un po’ di russo. Per le agenzie di stampa e per i quotidiani che hanno riportato la notizia, Samantha Cristoforetti è un ingegnere, poi un capitano dell’Aeronautica militare, quindi un pilota e addirittura (nel titolo di Tmnews) la prima donna astronauta italiana in orbita nel 2014. Come se scrivere semplicemente la prima astronauta non desse abbastanza conto che si sta parlando di una donna. Stesso trattamento per Marcella Panucci. Citazioni ancora da agenzie e quotidiani: il primo direttore donna, avvocato, consigliere economico, nuovo direttore generale di Confindustria, direttore del nucleo affari legali, direttore dell’area affari legislativi. Ma perché direttrice non ci piace? E consigliera? E avvocata? Eppure la nostra bella lingua lo prevede, il latino addirittura lo impone. Infine, l’esempio di Maria Luisa Pellizzari. Nuovo capo dello Sco, direttore della Polizia stradale, vice commissario in prova, funzionario addetto alla squadra mobile, funzionario addetto alla Criminalpol, primo dirigente, direttore della III Divisione e ci fermiamo qui perché la lista è lunga e noiosa. Mentre aspettiamo la ratifica della nomina di Anna Maria Tarantola alla presidenza della Rai indicata dai media, ovviamente, come il nuovo presidente e il numero uno (neanche fossimo dalle parti del fumetto di Alan Ford….).

Domanda che sorge dal profondo del cuore: perché, se da una parte sono in molte a parlare di valore aggiunto delle donne quando assumono certe cariche, continuiamo a scrivere (e purtroppo a leggere) di femmine in chiave maschilizzata? Se non ce le fate vedere queste eccellenze, come possiamo riconoscerle e, dunque, apprezzarle (e magari, un giorno, votarle)? E perché, specialmente noi giornaliste e giornalisti, ci rifiutiamo di usare l’italiano parlando di costoro? Spiega Alma Sabatini, che sulla questione la sapeva lunga (1): “Il desiderio, non sempre conscio, di dare risalto al diverso livello della carica, è forse spesso il motivo che induce molte donne nei gradi più alti a preferire il titolo maschile. Il che, d’altra parte, non fa che confermare che il genere maschile è il più autentico detentore di prestigio e potere e che la donna, se vuole salire di grado, ad esso si deve adeguare”. E ancora: “Il problema è che la dicotomia maschile/femminile non divide il mondo in due parti parallele di pari valore e potere. Che si tratti di questioni di genere o di scelte lessicali, c’è un principio che percorre e regge tutta la lingua italiana: la superiorità dell’uomo sulla donna. Mediante la ripetizione inconsapevole di forme linguistiche basate su questo principio, si perpetua e si rafforza la posizione di potere dell’uomo e di subalternità della donna nella nostra società e si dà, in tal modo, quel consenso indispensabile al mantenimento di qualsiasi potere”. In definitiva ““Il titolo maschile per la donna serve di perenne memento che la carica spetta all’uomo”.

Care colleghe, siamo sicure che sia proprio questo il messaggio che vogliamo mandare a coloro che ci leggono quando redigiamo un articolo o commentiamo una notizia? La strada è lunga e perigliosa. Eppure ho notato che Lilli Gruber nel corso della trasmissione che conduce su La7 ogni sera appena dopo il tg, usa regolarmente la parola ministra per designare Cancellieri, Fornero o Severino e spettatrici e spettatori quando conclude e saluta. Altresì, che la giovane collega Francesca Mandese sul Corriere della Sera del 28 giugno scorso parla di Loredana Capone come “candidata sindaca sconfitta” mentre le senatrici e le deputate, ormai, non fanno venire il mal di fegato più a nessuna. Anzi. Si staglia all’orizzonte una insistente figura, l’architetta (Zaha Hadid, ancora sul Corsera). Chissà se, a forza di masticare linguaggio sessuato e femminilizzato, qualcuna stia cominciando a prenderci gusto…

(1) Ex radicale e parlamentare nonché prima presidente del Movimento di liberazione della donna, autrice nel 1986 del volume Il sessismo nella lingua italiana scritto per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Commissione nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna.

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