Mi violenti due volte se dici: è una fesseria | Giulia
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Mi violenti due volte se dici: è una fesseria

'A Torino l''incontro di Snoq sulla violenza. Il viaggio nell''incubo quando l''aggressione arriva da un amico, da un fidanzato, da un marito... Di [Cristina Obber]'

Mi violenti due volte se dici: è una fesseria
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15 Ottobre 2012 - 10.52


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Il lavoro che ho svolto negli ultimi due anni mi ha sconvolto non tanto per gli accadimenti che mi sono stati raccontati, dei quali mi aspettavo la drammaticità, ma per l’inconsapevolezza che questi avvenimenti portano con sè. E questa inconsapevolezza riguarda gli autori ma anche le vittime della violenza.

Nella maggioranza dei casi gli autori sono persone conosciute dalla vittima.
La violenza da un amico, da un compagno, è più complessa da superare poiché viene meno la fiducia nel prossimo, ci si sente tradite e si soffre perché quel tradimento diventa un proprio fallimento sentimentale.

Veronica, la ragazza che mi ha dato la sua testimonianza per il libro, a distanza di dieci anni dalla violenza di gruppo subita dai suoi amici dell’università, dice oggi: “Non mi sconvolge quello che hanno fatto gli altri, mi sconvolge quello che ho fatto e non ho fatto io. Non ho denunciato. Perché un po” me lo meritavo. Questo sentivo, colpevoli loro, colpevoli io. Eppure sarebbe bastato farmi visitare prima di lavarmi, farmi fare un prelievo vaginale, lo sperma era ancora tutto lì. Non l’ho fatto, non sono stata consapevole di me”.

In una scuola due settimane fa una ragazza mi ha chiesto come si fa a denunciare un fidanzato che ti ha fatto violenza sessuale, come si fa a mandarlo in prigione se ne sei innamorata.

Quando sei coinvolta è difficile definire il confine tra amore e violenza.
Chi subisce violenza innalza barriere, si difende con i sensi di colpa, ma manifesta anche disturbi post traumatici che se non vengono gestiti diventano duraturi. L’aggettivo duraturi fa la differenza.

Depressione, problemi relazionali, autolesionismo, disturbi dell’alimentazione.
Questi disturbi ci richiamano anche alla necessità che il riconoscimento della violenza avvenga anche da parte di chi vive intorno alla vittima. Nella famiglia, a scuola, tra i colleghi sul lavoro.

Perché una donna che viene stuprata e non denuncia, che non parla con nessuno della violenza subita è una donna che improvvisamente cambia; che manifesta quei disturbi che, nel caso di minorenni ad esempio, spesso vengono considerati dai genitori solamente delle esasperazioni di comportamenti che fanno normalmente parte dell’adolescenza. Se della violenza non si parla, l”attenzione va altrove.

C’è bisogno di un riconoscimento sociale chiaro della violenza. Di una definizione più precisa. Oggi nell’immaginario collettivo la violenza sessuale si riferisce ad una violenza ad opera di uno o più sconosciuti che ti aggrediscono per strada o in un parcheggio.

Quando la violenza riguarda amici, conoscenti, o familiari, quando un femminicidio coinvolge due giovani fidanzati,
allora le si vuol dare un altro nome.

I nostri bravi ragazzi “hanno esagerato” e le nostre ragazze un po’ “se la sono cercata”. E ragazzi dolci e affettuosi hanno “perso la testa”.
E quante donne adulte sono in prima linea a difendere i maschi violenti? A giustificarli, a puntare il dito per prime contro altre donne?
Queste sono manifestazioni di inconsapevolezza collettiva, sono menomazioni della coscienza sociale che si riflettono sul pensare e sul sentire dei giovani.

Le ragazze si sentono davvero complici di ciò che potrebbe loro accadere ancor prima che accada, i ragazzi si sentono già protetti da una famiglia e da una comunità territoriale e nazionale pronta a comprenderli e perdonarli.
Dopo la violenza ai danni di una loro amica, i due diciannovenni abruzzesi, ad agosto, il giorno dopo l’accaduto, hanno confidato ad un amico di aver fatto “una fesseria”.

Una fesseria è un giro in moto senza casco, una fesseria è esagerare con l”alcool e vomitare tutta la notte.

Mi violenti di nuovo se parli di “fesseria”.

Chiediamoci perché un ragazzo di 25 anni può associare allo stupro il sostantivo “fesseria”. Come si costruisce questo linguaggio?

La stampa, la tivù, hanno una grande responsabilità, nel gergo, nell’uso delle parole, nella costruzione degli articoli.

Ma dobbiamo smetterla di giustificare, di minimizzare, tutti.

Tanti femminicidi sono l’epilogo di violenze perpetuate per lungo tempo, a volte anni, con i parenti che cercano di riappacificare, con i vicini che non si vogliono impicciare, con le forze dell’ordine che non sono preparate nelle valutazioni dei rischi.
Ma la violenza sulla donna non è soltanto quella efferata che finisce sui giornali, c’è un problema di relazione quotidiana distorta che ci riguarda tutti, di cui si parla poco proprio perché è più facile guardare altrove che dentro le nostre relazioni.

La violenza molte volte si costruisce insieme, accettando ruoli e gesti, giorno dopo giorno, tra compagni di scuola, tra fidanzati, all’interno della famiglia.
Perchè la politica riconosca la violenza – e la deve riconoscere, mettendola tra le priorità dell’agenda, perché se non si è nel calendario delle urgenze anche il miglior progetto di legge non troverà mai il tempo per essere discusso, non troverà risorse – ma per chiedere alla politica di riconoscere la violenza come un problema sociale dobbiamo prima riconoscerla noi, nelle nostre vite.
Anche il nostro linguaggio, quello di noi donne, un linguaggio familiare spesso fatto di silenzi-assensi deve rinnovarsi, senza paura di riconoscere anche dentro le nostre mura sintomi ed espressioni di violenza, di quella violenza psicologica appena percettibile a volte e che proprio per questo ci si abitua a trascurare.

Nella maggior parte dei casi le donne aspettano, portano pazienza, come deve fare una buona madre di famiglia, in nome della sacralità della famiglia.
Le donne portano pazienza perché si comincia con piccole umiliazioni, su cui si può sorvolare, oppressioni che ingrossano le spalle anziché far alzare la voce, velate intimidazioni che si fanno sempre più fitte.

Mentre i figli ascoltano, respirano, fanno loro quelle modalità di relazione.
A volte si va avanti così per anni, senza che nessuno alzi le mani.

Poi un giorno la donna rompe il meccanismo, rompe quel silenzio-assenso che in fondo la lascia vivere tranquilla, rassegnata ma tranquilla, quel silenzio che non turba apparentemente il quieto vivere della famiglia. Ecco che arriva il primo schiaffo, e qui di nuovo una scelta: Testa bassa o testa alta; violenza fisica o psicologica, le modalità sono le stesse. Le difficoltà a dirci cosa ci sta accadendo anche. Ci nascondiamo dietro l’alibi del bene dei figli, sapendo di mentire.

Perché è il linguaggio di padri e di madri ciò che i nostri figli, crescendo, porteranno nel profondo, dentro di sé.

Cerchiamo di parlarne con i nostri compagni, che vivono in un mondo di uomini zitti.

E’ il silenzio che fa si che sulla violenza il mondo maschile abbia davvero orizzonti ristretti.

Riconoscere la violenza per uno sguardo maschile è ancora difficile.

Gli uomini non solo non parlano, purtroppo non ascoltano.

Non ascoltano il No con cui li supplichiamo di non farci male.

“Quel No mi è rimbalzato” mi ha raccontato Marco, ricordando una violenza su una ragazzina. Rimbalzato. Non ti ascolto.

Quello che mi ha sconvolto in carcere, parlando con gli uomini, è il loro individualismo, la disabitudine ad ascoltarci. L”indifferenza. 

Sono entrata in carcere grazie al CIPM, il centro italiano per la mediazione che ha sede a Milano ed opera un trattamento intensificato sugli autori delle violenze sessuali. Durante il trattamento questi uomini vivono in una parte del carcere dedicata, in celle singole perché la solitudine risulta essere un elemento essenziale per l’elaborazione, altro che domiciliari! Nel primo incontro ho soltanto ascoltato. Stupratori, pedofili, maltrattanti.
Erano una ventina, tutti insieme, parlavano di sé, facevano una sorta di bilancio dei nove mesi di trattamento. Facce normali, uomini della porta accanto.

Ho sentito tanti Se. Se avessi saputo, se avessi potuto, se avessi capito. Se avessi chiesto aiuto. In una scuola un ragazzo mi ha chiesto con chi si può parlare senza essere giudicati.

In carcere ho respirato Incertezze e speranze per quello che sarà il dopo, il fuori di qui, tra buoni propositi, fragilità e paure.

Sono in molti a pronunciare la parola rabbia, rabbia che cresce dentro, rabbia che non sai dire, rabbia come unico mezzo per reagire a qualcosa che non va a modo tuo. Rabbia che molti ammettono di imparare a riconoscere, prima ancora che a gestire, grazie al trattamento. Mi ha sconvolto rendermi conto che quasi per tutti la consapevolezza del dolore causato è emersa piano piano, durante quei nove mesi, settimana dopo settimana, portando con sé una sofferenza che non c’era. Questo è il dramma. Non c’era.

C’era solo rancore per essere in galera. Come se le botte, lo stupro si potessero paragonare ad un incidente in auto, aggiusti le ossa e aggiusti tutto. Come è possibile – mi sono chiesta – che il dolore non sia immaginabile, scontato, ovvio, che ci sia bisogno di farselo spiegare?
Per non parlare della pedofilia, dove si respira la malattia:
Dopo aver abusato della nipote di tredici anni per un anno intero, tutte le domeniche una decina di minuti, un uomo è riuscito a dirmi, durante un colloquio individuale, è riuscito a dire che anche a lei piaceva, altrimenti avrebbe denunciato prima. Lui 45, lei 13.

E sto parlando di un padre di tre figli adolescenti.

Siccome prega spesso, non si da’ pace di non essere stato perdonato dai suoi familiari. Si sente in pratica vittima, incompreso da un mondo ingiusto.
Chiediamoci con quale rancore verso il mondo ingiusto e verso le donne uscirà quest’uomo dal carcere dopo altri sei anni degli otto che definisce Troppi. Troppo pochi, gli ho detto, ma lui insisteva che erano troppi perché concentrato su di sé, in preda ad un egocentrismo spaventoso.

Ovviamente questo signore non si era sottoposto ad alcun trattamento riabilitativo; aveva provato ma mi ha detto che era troppo faticoso, ha detto Mi scoppiava la testa.

Chiediamoci perché il trattamento intensificato non è obbligatorio per tutti gli uomini violenti. Perché questi sono progetti che riguardano poche realtà e con risorse limitate. Perché è solo apparentemente un problema di soldi. Il carcere costa, e se uno non ci ritorna risparmiamo anche in termini economici.
Se diminuisce la violenza diminuiscono le persone in carico ai servizi sociali per superare il dolore, per sopravvivere.

Se diminuisce la violenza ci si ammala di meno di patologie post trauma, si usano meno psicofarmaci eccetera eccetera.

In carcere c’era anche un tale che era al 29esimo anno di carcere, ma non tutti di fila, dentro e fuori. E in quel dentro e fuori ha stuprato 27 donne.
Non ci si crede, ma queste sono le realtà del nostro sistema giudiziario.
Ha detto ho paura di quando uscirò, qui mi sento protetto ma sono malato di alcool e di sesso. Finalmente un uomo consapevole! Un altro, che picchiava la moglie, ex moglie, l’ha definita EX vittima. Il dott. Giulini, del CIPM, lo ha subito interrotto: vittima era e vittima resta, gli ha detto. Forse quell’uomo ha usato EX perché non intende più sfogare su di lei la propria frustrazione ma certo la colpa, per quanto espiata, rimane. E quello che è accaduto, non si cancella.

Lorenzo, in carcere per stupro, ha detto che prima del trattamento pensava che i pedofili fossero molto peggio di lui, e che soltanto ora sa che sono pari, che la violenza è violenza e basta; la consapevolezza gli ha portato il rimorso e la vergogna con cui è giusto che faccia i conti.

Ecco dunque che le istituzioni devono intervenire sugli autori di violenza con dei trattamenti mirati, devono attuare il percorso di elaborazione e recupero dell’individuo di cui parla la Costituzione.

Noi non vogliamo più che gli uomini escano dal carcere come da un freezer, intatti, senza il riconoscimento di ciò che hanno compiuto, del lutto arrecato, del male che hanno fatto.

Si torna sempre ad una parola magica: CONSAPEVOLEZZA.

Che significa anche PREVENZIONE. Che significa uscire dalla SOLITUDINE, non pensare che quello che stai vivendo non è successo a nessuno prima di te. Significa non sentirti perduto se lei non ti vuole più, se non ti ama più.
Significa sapere che c’è un altro modo, che un altro futuro è possibile.
Ma soltanto se io so cos’ è la violenza posso riconoscerla.
E soltanto se la riconosco posso, se mi ritrovo coinvolto in un sentire violento, contestualizzarmi all’interno di quello che mi sta accadendo, e dire NO.

Se sono maschio e non riconosco quello che mi sta accadendo, perché non ho indizi, non ho elementi di paragone da associare a ciò che mi passa per la testa, alle mie fantasie, a ciò che mi da’ pace, pensate al sollievo che l’autore di un femminicidio prova nell’architettare il suo omicidio, se non so come si chiama quello che mi sta accadendo allora sarò vittima io stesso della mia inconsapevolezza e della violenza, della paura, della rabbia che mi pervade in quel momento. E farò del male.

Ecco perché con l’associazione Donne in rete stiamo portando avanti il progetto Non lo faccio più nelle scuole, perché con la discussione i ragazzi potranno dare non solo un nome alle cose che ascoltano dai media, ma potranno anche dare un nome a ciò che incontrano nei loro pensieri, dare un nome alle loro emozioni e alle loro paure. E dirsi queste cose tra loro, ragazzi e ragazze INSIEME.
A Milano collaboreranno anche l’associazione Maschile Plurale, fatta di uomini che si interrogano sulla violenza, e l’associazione Amiche di Abcd, ma su ogni territorio sarà importante entrare nelle scuole insieme ad associazioni che vivono in quel territorio, affinché ai ragazzi rimangano poi delle persone a cui far riferimento da lì in avanti per non sentirsi soli ma anche per collaborare e portare il loro contributo.

Perché nonostante i giovani convivano con gli stereotipi di genere, sono così svegli che fanno presto a liberarsene. Hanno energia, hanno la rete, possono fare grandi cose.

Quando io avevo 18 anni, vivevo serena in una scuola di maschi, unica femmina in classe, dove ho sempre respirato rispetto per la mia diversità, dove mai mi sono sentita oggetto.

Allora tutte le conquiste che dobbiamo al femminismo mi parevano la normalità, il mio presente e il mio futuro.

Mi sono chiesta come mai oggi vado nelle scuole a parlare ai 18enni di femminicidio e di stupro?

Se non lotti per qualcosa non ti rendi conto di quanto sia prezioso, e non ti impegni abbastanza per difenderlo.

Ci siamo rilassate, dando per scontato che il futuro sarebbe stato un cammino fatto di altri riconoscimenti e conquiste, senza bisogno di lottare, per la naturale inerzia dovuta alla spinta degli anni ‘70. Abbiamo portato avanti la nostra dignità e la nostra parità negli ambiti privati, senza curarci troppo di quanto accadeva fuori.

Credo tutte noi saremo eternamente grate alle fondatrici di snoq per aver ritrovato quel coraggio collettivo che sembrava perduto e anche questa giornata dimostra che ci riconosciamo nel bisogno di condividere, di puntare non ognuna su sé stessa ma su tutte noi insieme.

Concludo con la frase di uno storico, Leo Valliani, che parla del Novecento, in un libro scritto alla fine del Novecento.

-Il nostro secolo prova dunque che la vittoria degli ideali di giustizia e di uguaglianza è sempre effimera, ma se si riesce a salvaguardare la libertà, si può, tuttavia, ricominciare da capo. Non bisogna disperare, neppure nelle situazioni più disperate.

Ecco, credo che se oggi siamo qui in tante è per rafforzare e condividere unite la necessità di ricominciare da capo. La possibilità di ricominciare da capo.

E di affidare alle giovani donne e ai giovani uomini nuovi strumenti di verità e di scelta.

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