Pas, la testimonianza di una madre

'Un papà duro e violento. Le denunce della mamma. La casa-famiglia. E il sorriso che si spegne sul volto del bambino. Ecco cos''è la Pas... Di [Virginia Rota]'

Pas, la testimonianza di una madre
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15 Ottobre 2012 - 12.57


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“Non voglio andare con papà, ti prego mamma. Vi prego. Ho paura. Papà è durissimo. Non ce la faccio più. Aiutami” e poi racconti di getto di dispetti, vendette e punizioni reiterate. Non è che l’ennesimo sfogo di Matteo (il nome è di fantasia), un bimbo di soli 7 anni che, dopo aver vissuto esclusivamente con la madre da quando è nato, il tribunale per i minorenni di Roma ha collocato presso il padre. Motivo? Matteo avrebbe la Pas e deve superare il trauma di andare col padre col quale, secondo la consulenza tecnica che ha portato a tale improvvisa e drastica decisione, ha un buon rapporto “tanto che il papà gli ha fatto fare merenda con uno yogurt specifico”.

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Matteo è nato da una convivenza interrotta a causa delle violenze perpetrate dal padre nei confronti della mamma, sempre alla presenza del bambino. Violenze prima solamente subite per vergogna all’interno delle mura domestiche e, successivamente, denunciate alle forze dell’ordine più volte intervenute. Violenze che hanno portato al rinvio a giudizio per maltrattamenti famigliari dell’uomo, a un procedimento penale in corso e a un affido esclusivo del minore alla madre che, però, non ha mai chiesto la perdita della potestà genitoriale dell’ex compagno, “perché – spiega – ho sempre pensato che il bambino dovesse in qualche modo confrontarsi col padre e, seppur con enorme fatica, ho sempre cercato di scindere il mio essere donna vittima di violenza dal mio essere madre”. E così, nonostante oggettive difficoltà, Matteo ha frequentato il padre nei giorni stabiliti dal decreto del tribunale (un pomeriggio a settimana più week end alternati).

Ma il padre ha giurato vendetta nei confronti dell’ex compagna che aveva osato querelarlo e più volte le ha ripetuto che avrebbe fatto di tutto per toglierle il figlio. Dopo quaranta denunce per mancata esecuzione degli ordini del giudice, archiviate come strumentali, appostamenti sotto casa, minacce di morte che hanno portato persino al repentino allontanamento della donna considerata in pericolo dalle forze dell’ordine, l’occasione per realizzare la meticolosa vendetta si è presentata all’uomo con la nomina di una consulenza tecnica d’ufficio da parte del tribunale. In cinque mesi, il perito ha ribaltato la situazione: Matteo avrebbe la Pas e pertanto deve recuperare il rapporto col padre. Poco importa se anche i test psicodiagnostici a cui i due sono stati sottoposti confermano “l’indole violenta, aggressiva, manipolatoria e narcisista” di lui, mentre parlano di persona “equilibrata e razionale” in riferimento alla madre.

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Matteo viene sradicato dall’ambiente in cui ha sempre vissuto, dagli affetti, dagli amici, dalla scuola e collocato presso l’abitazione paterna, con diritto di frequentare la madre un giorno a settimana e i week end alternati. Dura quattro mesi il nuovo collocamento. In questi quattro mesi, la situazione precipita rapidamente. Viene prima limitata e poi sospesa la potestà genitoriale, messo un educatore in casa, affidato ai servizi sociali e, infine, ricoverato in neuropsichiatria e collocato in casa famiglia. Quattro mesi sono stati sufficienti per distruggere un bambino di sette anni che aveva una sua normalità, una vita piena, fatta di forte socialità e di tanti piccoli impegni. Una vita soprattutto piena d’amore e di persone che gli vogliono bene e a cui il bambino è molto legato. Matteo avrebbe dovuto migliorare il rapporto col padre, ma per farlo si è pensato non di facilitare e aiutare i due nell’eventuale ricostruzione, ma di distruggere il rapporto privilegiato con la figura materna e con l’intera cerchia famigliare e amicale.

Quattro mesi in cui Matteo racconta di continue punizioni e diventa sempre più determinato nel rifiutare il padre. L’ostatività che aveva caratterizzato a volte gli incontri padre – bambino diviene la norma. Un pomeriggio rifiuta di tornare dal padre dopo due giorni trascorsi con la madre. Questa, prova a convincerlo invano. L’educatrice, presente, non sapendo come agire fa intervenire i servizi sociali che, insieme alla curatrice, decidono di ordinare un’esecuzione coatta. A nulla valgono le parole della signora che chiede di poter portare il figlio in una pizzeria al taglio lì vicina per tranquillizzarlo. Quattro ore in strada tra pianti disperati e tentativi di fuga del bambino che, a un certo punto, si chiude in ascensore per non essere portato su di peso dal padre, il quale per tutta risposta lo chiude dentro e blocca la porta dall’esterno. Fin quando le urla disperate del minore catturano l’attenzione dei vicini che intervengono.

Ma tutto questo non è sufficiente. Ormai è stata decisa l’esecuzione coatta e si farà. La madre viene spinta a terra riportando ecchimosi e ferite e il bambino trascinato dai polsi fino all’abitazione paterna, da dove uscirà poco dopo in ambulanza per raggiungere il pronto soccorso dell’ospedale Bambino Gesù in forte stato di agitazione psicofisica e stress. Rimane ricoverato 5 giorni e subito dopo prelevato e trasferito in casa famiglia, dove si trova da tre mesi. Matteo oggi è un altro bambino. Non sorride più. Non si esprime. Non comunica le sue emozioni. Ma – dicono gli operatori e i responsabili della struttura religiosa dove è ospitato – sta bene, è sereno: mangia e va a scuola.

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Le case famiglia romane percepiscono circa 200 euro al giorno per ciascun bambino. Ma questo è un altro discorso.

La madre non si dà pace e ripete che vorrebbe non aver mai sporto querela nei confronti del compagno violento, perché se avesse continuato a subire in silenzio, oggi avrebbe suo figlio accanto e, soprattutto, Matteo non si sentirebbe abbandonato da tutti e da tutto, sradicato, rifiutato, isolato, visto che può incontrare i genitori un’ora a settimana e non ricevere telefonate.

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