Non lo faccio più: presentato il progetto

Nella Sala della Provincia di Milano, affollatissima. Stereotipi, responsabilità della comunicazione e della mercificazione dei corpi apportata dalla pubblicità.

Non lo faccio più: presentato il progetto
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25 Ottobre 2012 - 23.12


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‘Stasera nella sala degli arazzi di Palazzo Isimbardi, sede della Provincia di Milano – attorno all”ultimo libro di Cristina Obber, “Non lo faccio più”, e al progetto educativo che porterà studenti e studentesse a riflettere sulla tragedia dello stupro – si è tenuto un dibattito intenso ed emozionante. Molti gli interventi, con dati, analisi, piccole e grandi esperienze.

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Ma il colpo di frusta alla sala, affollatissima sino all”ultimo minuto, è venuto soprattutto dalle testimonianze di chi opera sul campo. Paolo Giulini, criminologo e presidente del Cipm, lavora nel carcere di Bollate sugli autori di violenze, aiutandoli – e non è facile, anzi non manca chi si sottrae al trattamento autoassolvendosi – a prendere coscienza del dolore inferto. Anche perché possono, una volta fuori dal carcere, reiterare l”atto: “Sono persone che hanno un motore interno con modalità abusanti. La cosa più assurda è che ci accorgiamo che in Italia sta emergendo ormai una coscienza del fenomeno, ma non viene investito neanche un euro nella prevenzione.

Nonostante l”efficacia delle nostre tecniche sia riconosciuta internazionalmente, tanto che vengono da Francia, Germania, Gran Bretagna a studiarle”. A Bollate 5 operatori gestiscono 30 autori di reati sessuali gravi, con obbligo detentivo e un anno d”intensa terapia; eppure neanche nella legge appena votata in Lombardia c”è un solo euro investito per impedire la ripetizione dell”atto violento.

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Prima di tutto – ha sottolineato il dottor Giulini – c”è un problema gravissimo di emersione (il 93% dei reati sessuali non vengono denunciati). E per quelli che vanno a sentenza il tempo medio è di 76 mesi: cosa succede nel frattempo, tra violento e vittima? Ancor meno ci si occupa di quello che succede dopo. Molti negano l”abuso e, se non son messi in condizione di elaborare la gravità del loro comportamento e della qualità della loro stessa vita, il carcere alimenta una forma di rabbia e di desiderio di vendetta che condurrà poi alla recidiva. “Io, conclude Giulini, mi affaccio nella psiche di questo violentatore, del pedofilo, dello stalker: sono responsabili e non hanno nessuna giustificazione. Ma hanno una vulnerabilità, che va trattata. Perchè non lo facciano più”.

Isabella Landi, che opera in un centro che si occupa di minori violenti tra i 14 ed i 21/24 anni, ha parlato dell”influenza del gruppo, o del branco, sui ragazzi e del lavoro che almeno su di loro viene effettuato con maggiore continuità, contenendo la recidiva. “La maggior parte dei reati vengono compiuti fra 16 e 17 anni, quando le capacità ipotetiche, cioè di proiettarsi sulla conseguenza delle loro azioni, sono minime”. La giustizia minorile da un forte sostegno anche ai genitori dei violenti, che restano spesso senza parole e reagiscono con la vergogna e col rifiuto, diventando espulsivi. Non è facile perché la violenza di genere fa parte di una più generale violenza nelle relazioni…”.

Da qui la discussione si é fatta intensa sulle profondissime radici culturali, gli stereotipi, la responsabilità della comunicazione e della mercificazione dei corpi apportata dalla pubblicità. Su questo Paese così profondamente patriarcale e negazionista… Molti i giovani in sala, ragazze e ragazzi, che al termine si sono fermati a discutere e chiedere ai relatori fino a che, stante l”ora tarda, gli uni e gli altri sono stati sollecitati a proseguire la discussione fuori dal palazzo. Per fortuna la serata era tiepida.

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