Ho immaginato che una rete rossa (come quella con cui si usa recintare i cantieri o le zone off limits), quale avvertenza di pericolo, avvolga idealmente la minoranza più numerosa, silenziosa e da più tempo vessata che esista nel mondo: le donne. Tutti conoscono l’entità delle violenze quotidiane cui sono soggette le donne, anche nel nostro Paese che si picca – a parole — di definirsi ‘moderno, occidentale, progressista’.
Il fenomeno è noto, tuttavia non pare attenuarsi (solo due giorni fa, ascoltando il TGR del Piemonte ho ascoltato di ben tre episodi gravi e gravissimi di violenza contro donne): la questione è più psico-sociale di quanto immaginiamo, laddove tutti pensano che il sessismo ed il femminicidio siano solo responsabilità personali di alcune ‘mele marce’. Non è così, il sessismo è un tratto umano ben radicato culturalmente.
E fino a quando ci sarà ancora qualcuno che riduce la morale ad una questione di orari di coprifuoco e di orli di gonne non si farà mai un passo avanti verso la modifica di un’antropologia da clava. Bisogna cambiare il modo di pensare della ogni comunità umana. Questo è il difficile, perché il cambiamento è soprattutto nelle modalità quotidiane di considerazione della donna, quelle immarcescibili, quelle che sono come l’aria che respiriamo, ovverosia fuori della sfera della consapevolezza attiva. Al di là della facciata ‘politica’ e pubblica di condanna, c’è ancora troppa parte della società che è intimamente sessista e misogina.
I limiti di tale abbrutimento, ovvero dell’assuefazione alla violenza quotidiana, esondano talmente da diventare ciò che Freud denominò la ‘Sindrome dell’elefante rosa’, nel riferirsi ad un problema talmente inverosimile nelle sue macroscopicità ed assurdità da non essere più percepito come eccezione o anomalia.
Narrare, spiegare, informare, discutere è un antidoto alla superficialità e forse è l’anticamera della cura. Forse.
Lunedì 28 gennaio ad Avellino si è tenuta una manifestazione dal titolo Nodi di donna, organizzato dall’Associazione Il Filo d’Arianna. Lo scopo è di mantenere ancora e sempre alta l’attenzione sulle condizioni di disagio, di violenza, di abbandono e di degrado in cui moltissime donne tentano di sopravvivere, di cui il femminicidio è solo l’aspetto estremo, nonchè cercare aiuti per la sopravvivenza dei centri anti-violenza. Nell’ambito dell’evento è stata presentata una narrazione visuale (foto e video) dal titolo Say no to violence, in cui alcune donne irpine hanno accettato di diventare testimonial della campagna, fotografate in quei luoghi del capoluogo irpino diventati simboli di incuria, violenza e degrado.
Le immagini del photo-contest Say no to violence sono belle ed evocative. Il bianco/nero fa risaltare la drammaticità del messaggio dei volti delle donne, ritratti nei violentati luoghi cittadini. Nel video originale, che sarà riproposto nella sua interezza in più eventi a seguire, voci narranti hanno reso efficacemente la sensazione del ‘senza scampo’ in cui si trova il paradosso della donna nel Terzo Millennio.
A latere dei vari set cine-fotografici ho voluto invitare tutti i partecipanti al contest a riunirci per un paio di incontri informali sul tema della violenza.
Ecco cosa è venuto fuori dalle nostre riflessioni.
Due sono i concetti attorno ai quali si catalizzano tutti i guasti comportamentali antropici sia nei confronti dei luoghi che delle persone: l’uso della violenza è maggiore quando luoghi e persone non vengono riconosciuti come degni di tutela e di conseguenza risultano quotidianamente sviliti; secondo punto: la mancanza di rispetto.
La violenza (anche se agìta individualmente) è una faccenda collettiva, in cui l’imitazione e l’omologazione dei comportamenti al ribasso erode il rispetto che si deve ai luoghi di vita comune e alle persone (nella fattispecie le donne, ma ciò si attaglia anche ai poveri, agli emarginati, agli anziani malati). È un po’ la versione della Teoria delle Finestre Rotte di Kees Keizer adattata agli umani.
Come ci ha fatto ben comprendere Dana, una delle testimonial – nel suo accorato intervento – un comportamento è una catena: un’azione tira l’altra. Quando il comportamento provoca danni e dolore, è pressoché impossibile spezzare da soli le concatenazioni. Ci vuole un aiuto, ci vuole la collettività.
Il rispetto, invece, è il valore che stiamo perdendo nei confronti di tutto ciò che una comunità svilisce e considera secondario, scontato, ovvero non amato nè curato. Una delle poesie (che il professor Goffredo Napoletano ha dedicato all’argomento) è un doloroso ultimo appello al rispetto:
“[…]Di notte,senza più lacrime,
urli al vento:
non voglio compassione, ma rispetto!”
La manifestazione Nodi-di-donna è uno dei tanti contributi per rileggere la storia dei luoghi dimenticati e delle donne, affinchè la memoria diventi un esercizio quotidiano.
Il video e il trailer sono di Mario Perrotta