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[right]”La mia precarietà esistenziale rischia di mettere in crisi il matrimonio stessoe la possibilità di avere figli”[/right]
[left]“Il lavoro è stato precario fin dall’inizio: durante la gravidanza sono stata ‘scaricata’ dall’azienda per cui lavoravo (per altro retribuita ‘a cottimo’), poi per i 15 anni di lavoro a tempo indeterminato ho fatto le acrobazie per conciliare casa e lavoro, e ora la precarietà viene compensata dalla libertà di poter accudire l’anziana madre senza subire la rigidità delle aziende, per niente propense alla conciliazione lavoro/famiglia”[/left]
[right]”Il mio compenso non mi consente né per la somma che percepisco né per la sua stabilità di creare una famiglia. Inoltre, gli orari che faccio e la disponibilità che bisogna dare per mantenere la collaborazione non vengono sempre ben digeriti da chi mi sta vicino. Durante la settimana insegno, poi collaboro come interprete per il tribunale e generalmente nei week end sono fuori per servizi. Difficilmente è gestibile una vita affettiva”[/right]Tutto il lavoro femminile è sotto schiaffo, ma quello non dipendente lo è ancor di più: libere professioniste spesso foglie al vento senza garanzie, vittime di ricatti economici dell’editore e delle tensioni nelle redazioni. Per indagare la condizione delle giornaliste freelance il gruppo Formazione di Nuova Informazione (composto da Monica Bozzellini, Beppe Ceccato, Paola Manzoni e Barbara Pedron, con il coordinamento di Maria Teresa Manuelli) ha promosso la ricerca “Donne freelance: la famiglia è un lusso?”. Condotta su un campione di 600 colleghe libere professioniste della Lombardia, la survey è stata raccolta in un volume – il secondo della collana “I quaderni di Nuova Informazione” – presentato oggi presso il Circolo della Stampa di Milano. Non solo dati, ma soprattutto tante (e spesso drammatiche) testimonianze dirette delle intervistate che pagina dopo pagina compongono il profilo di quella che un tempo veniva vista come una figura di lavoratrice “privilegiata” e che oggi, invece, è tutt”altro che invidiabile.
Hanno fra i 30 e i 50 anni, sono sposate o conviventi, ma non hanno figli. E lavorano anche 12 ore al giorno. Per molte delle intervistate (quasi il 70%), infatti, l’essere freelance ha influito in modo significativo sulla famiglia o sulla decisione di averne una: è un lusso che non possono permettersi o, comunque, faticano a gestire, dividendosi tra più lavori senza poter contare su uno stipendio sicuro e adeguato e sull’effettivo supporto di partner, famiglia e strutture pubbliche. Mentre i servizi privati sono eccessivamente onerosi per il 30% delle intervistate.
E ancora: il 35,3% lavora con collaborazioni occasionali o ritenuta d’acconto, ma c’è anche un 12,1% che presta la propria attività senza nessun contratto. Il 27,3% dichiara, addirittura, di lavorare fissa in redazione con contratti da freelance: un controsenso.
Alcuni dati aggiuntivi: il 62,7% è sposata o convivente, ma quasi il 60% non ha figli. Il 17% è single con figli e spesso la gestione della famiglia è totalmente sulle sue spalle, non supportata da un welfare adeguato. Per questo, un ulteriore 14% delle single con figli è costretta a vivere presso la famiglia d’origine.
Molte sono “freelance forzate”, a causa di licenziamenti/crisi aziendali (45,8%), nascita di un figlio (7,2%) e necessità di dedicarsi alla famiglia (3,9%). C’è, però, anche un 29,4% che ha scelto di essere libera professionista.
Per chi non può contare su un altro lavoro stabile a pesare maggiormente è la precarietà esistenziale, che destabilizza la persona e la vita sociale.
“Le 600 colleghe che hanno risposto al sondaggio ci raccontano di un disagio professionale che diventa anche personale – ha commentato Maria Teresa Manuelli, coordinatrice del gruppo Formazione di Nuova Informazione – e rappresenta un punto fermo del dibattito attorno a una ineludibile riforma futura della nostra categoria che abbatta le barriere contrattuali e consideri le giornaliste nel loro complesso per quello che sono: un patrimonio che non può essere disperso e sacrificato”.
Ma anche chi un contratto da giornalista a tempo indeterminato ce l”ha, se da un lato può contare su una maggiore sicurezza economica, dall”altro si trova a lottare contro i pregiudizi e le esclusioni di una categoria ancora tutta prevalentemente al maschile. Nonostante livelli di qualificazione più alti, infatti, solo il 14% delle giornaliste riesce a raggiungere i gradi più elevati di carriera (direttrice, caporedattrice), contro il 27% degli uomini.
Come mostra l”indagine comparativa sui percorsi di carriera delle giornaliste e dei giornalisti italiani del Gruppo sulle Pari Opportunità del Consiglio nazionale dell”Ordine dei giornalisti, curata da Monia Azzalini, ricercatrice dell”Osservatorio di Pavia, e coordinata da Luisella Seveso, consigliera Odg, presentata nella stessa occasione. Esperienze professionali in età lievemente più matura, ingresso ufficiale nella professione ritardato (una su 4 dopo i 30 anni, rispetto al 15% fra i maschi), anche se il periodo medio di ””gavetta” è pressoché uguale. E intanto rimane sempre arduo per le donne raggiungere il ””soffitto di cristallo””, i livelli di vertice nelle testate. Alla domanda “Hai mai subito discriminazioni di genere?” hanno risposto positivamente il 38% delle donne intervistate contro il 12% degli uomini. Le donne che hanno riconosciuto nella loro appartenenza al genere femminile un ostacolo alla carriera, affermando così indirettamente di aver subìto una discriminazione di genere, sono tutte adulte (quarantenni e cinquantenni) o anziane (sessantenni o settantenni). Le giovani (ventenni e trentenni) riconoscono di aver subìto discriminazioni di genere se poste di fronte alla domanda diretta, altrimenti indicano più facilmente come ostacoli all”esercizio della loro professione altre questioni come la gavetta lunga e onerosa o la precarietà del lavoro in un mercato che percepiscono come bloccato da lobby di potere e crisi economica.
A conclusione delle due relazioni Letizia Gonzales, presidente dell”Odg della Lombardia ha sottolineato l”importanza di queste indagini e ha ribadito l”impegno dell”ordine lombardo per tutte le battaglie contro le discriminazioni di genere nel mondo dell”informazione. Mentre Francesca Zajczyk, delegata del Comune di Milano alle Pari Opportunità e docente di sociologia urbana presso la facoltà di Sociologia dell’Università di Milano-Bicocca ha rammentato come il tempo – quello per il lavoro, quello dedicato alla famiglia e quello per sé – sia la grande discriminante tra uomini e donne. Sebbene si avvertano, generazione dopo generazione, netti segnali di riequilibrio tra i tempi delle donne e i tempi degli uomini.
Su questi temi Nuova Informazione auspica un intervento del Sindacato, dell’Inpgi e della Casagit attraverso politiche contrattuali e di welfare. Per questo propone anche alle altre regioni di promuovere la stessa indagine, mettendo a disposizione il format completo, in modo da creare un primo reale database nazionale di dati omogenei sull’argomento.
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