Ogni 8 marzo

'Alla vigilia della retorica giornata dell''8 marzo, una riflessione sulle donne sconosciute della Resistenza. Di [Valentina Bazzarin]'

Ogni 8 marzo
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7 Marzo 2013 - 16.38


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“La soluzione che è sempre troppo profonda per la mente, fusa nel sangue” (David Herbert Lawrence)

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«[…] “Mentre uscivo dal portone dell’Accademia, il capitano che mi aveva interrogato mi prese da parte, per un attimo ebbi paura che mi tenesse ancora là, invece mi fece la predica e tra le altre cose mi disse di non prendere più parte alla guerra. Ricordo ancora le sue parole: “la guerra è per gli uomini e dì a tuo padre che non faccia più attività contro di noi perché, se non lo sa, il coltello dalla parte del manico l’abbiamo noi”. Poi aggiunse: “va a divertirti a casa troverai delle novità”[…]».

Le donne italiane per quasi tutto il resto del secolo hanno seguito questo consiglio, ma non hanno trovato nessuna novità. Sono tornate a casa, si sono infilate il grembiule, hanno acceso la TV e si sono lentamente trasformate da Nilde Iotti o Rita Levi Montalcini, nella paciosa, ma profondamente insoddisfatta casalinga di Voghera. Ma qualcosa forse sta finalmente cambiando e la storia di questo paese potrebbe rimettersi in carreggiata per continuare come quella di Olema che vi stavo, appunto, raccontando:

«[…] “Salutai e raggiunsi Stefanina e le altre per andare a casa. Avevamo tanta strada da fare a piedi, ma scherzavamo e ridevamo perché eravamo libere. Finalmente libere da un incubo, ancora tremanti per quegli interrogatori in cui avevamo sempre negato tutto, che ci avevano fatto capire che c’era una spia molto vicina a noi. Una spia amica di quelli scellerati che si vantavano di aver portato via i partigiani, saccheggiato il caseificio e bruciate le case…”[…]».

Pensavo di iniziare questo riflessione con un passaggio della lunga strada in mezzo alla neve di Maria Zef, il romanzo di Maria Dorigo ambientato nella montagna friulana ad inizio secolo, ma poi è giunta la notizia della scomparsa di Olema Righi, la staffetta partigiana che ha scritto le frasi sopra virgolette, e che occupa il podio del mio pantheon tutto al femminile. Ho scelto di ripartire da lei, da questo testo preso in prestito dal sito dell’ANPI di Modena, per parlare delle donne soprattutto alle donne, nel giorno della loro festa e per salutare con un pugno alzato bene in alto, senza mezza misura, tutte quelle che sorridendo e ingoiando la paura, ci permettono di essere qui, oggi:

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«“A Ganaceto ho incontrato una staffetta, Ione, che si è offerta di accompagnarmi a casa sulla bicicletta. Lungo quel breve tragitto non parlammo molto e io pensavo ad alta voce a chi avrei trovato a casa. Quasi certamente mia madre, mia sorella e mio fratello piccolo. Chissà se mio padre era ancora nascosto a Panzano. Chissà dov’era mio fratello Sarno. L’avevo visto per l’ultima volta il giorno prima del rastrellamento. L’avevo chiamato da lontano e lui si era girato a salutarmi. Fu proprio mentre me lo ricordavo così che Ione mi disse “hanno ucciso tuo fratello”. Non ricordo più niente di preciso di quello che seguì, ricordo solo che ho ricominciato la mia vita di staffetta con un motivo in più: onorare il sacrificio di mio fratello con una fede ancora più forte nell’antifascismo e nella memoria”».

Le storie delle donne italiane della Resistenza, sono storie belle fitte, piene di dettagli, di gesti, di sorrisi e di paura soprattutto quando a raccontarle sono le donne stesse, che lo fanno con la voce vibrante delle stesse emozioni. Liliana Cavani, nel 1965, ne ha raccolte alcune, in un documentario.
Le storie, le vittorie e le sconfitte di queste donne giovani, madri, vedove, libere, alte, basse, con le gambe forti o con le caviglie sottili e le dita lunghe sono state spesso trascurate dalla narrativa e dalla cinematografia, ma sono presenti nel racconto storico, nella narrazione biografica, nell’analisi sociologica e soprattutto, fortunatamente, nel mio quotidiano. Con queste donne forti condivido ogni giorno, 100 anni dopo, le lotte e le speranze, per una scuola e l’università bene comune, per l’acqua, per introdurre il reato di tortura, per il salario minimo, per i diritti di tutti. Le donne oggi possono sorvolare sul racconto dei doveri, di quelli le donne sono consapevoli dall’alba al tramonto e a volte lo sono anche nei sogni. Le donne devono probabilmente trovare di nuovo la voce per parlare pubblicamente dei diritti e la voglia di ascoltarsi o capirsi per iniziare a tessere la trama sociale di questo paese.

Elisabetta Vezzosi, conosciuta storica, qualche giorno fa ad un incontro organizzato a Bologna, spiegava che lo schema di Thomas Marshall su come la cittadinanza si fondi su una progressiva acquisizione di diritti, non si possa applicare mantenendo lo stesso ordine alle donne.
“Guardando ai diritti di cui la cittadinanza si compone Marshall propone una tripartizione, storicamente e concettualmente fondata: “chiamerò queste tre parti o elementi – egli scrive – il civile, il politico e il sociale. L’elemento civile è composto dai diritti necessari alla libertà individuale […]. Per elemento politico intendo il diritto a partecipare all’esercizio del potere politico […]. Per elemento sociale intendo tutta la gamma che va da un minimo di benessere e di sicurezza economica fino al diritto di partecipare pienamente al retaggio sociale e a vivere la vita di persona civile, secondo i canoni vigenti nella società”.
(http://www.treccani.it/enciclopedia/cittadinanza_%28Enciclopedia_Novecento%29/).

Secondo Vezzosi le donne occidentali hanno ottenuto i diritti sociali prima di quelli politici e di quelli civili, che sono arrivati tardi, solo nella seconda parte del ‘900 e soprattutto non sono stati coltivati da noi donne italiane assopite ciascuna sul suo comodo divano davanti ad un televisore acceso nella prima parte del nuovo millennio. Ci siamo accontentate di una spolverata di diritti sociali e politici. Per quelli civili abbiamo approfittato di qualche sporadica disattenzione e abbiamo infilato un paio di nomi femminili che tornano sempre utili nei discorsi per le manifestazioni e per le ricorrenze.

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Come mi ha scritto Sofia Venturoli – antropologa, ricercatrice precaria, presto mamma e mia “compagna Stefanina” nella mia quotidiana presuntuosa staffetta partigiana – alla quale ho chiesto di leggere la prima bozza di questa mia riflessione:
«forse non sarei così ottimista. Credo in realtà che sia proprio quello che manca… insieme a una visione dal basso della storia, nel senso delle persone piccole, la gente (non ho paura come molti di usare questa parola!) che quando ci sono, nella nostra storia sono comunque, ahimè, sempre uomini… E non sono così d’accordo nemmeno con la frase: “le donne occidentali hanno ottenuto i diritti sociali prima di quelli politici e di quelli civili”, che sono arrivati tardi… perchè se si legge bene Marshall, quelli che lui definisce diritti sociali sono proprio quelli che sono arrivati per ultimi e che in realtà non sono ancora completi, sono quelli che stanno nella cultura di un paese, nell’atteggiamento verso l’ambito femminile, in un paese che avesse veramente ottenuto questi diritti forse non esisterebbe il femminicidio, non ci sarebbero discriminazioni sul lavoro, nella politica, e in tutti gli ambiti della vita quotidiana, non ci sarebbe bisogno di quote rosa, rosse o verdi o gialle…»

Sofia aveva iniziato la sua mail di commento con: “anche io sono innamorata fin dal liceo delle storie delle donne partigiane… poi ci sono cresciuta in mezzo!”. Infatti noi siamo le nipoti di quelle donne partigiane, noi siamo “donne intelligenti”, come si intitolava la poesia di Lawrence i cui versi mi hanno suggerito il sottotitolo. A partire da oggi, con il rispetto dovuto ai sacrifici di ieri dobbiamo ritrovare l’impegno, dobbiamo ritrovare la voce, dobbiamo ritrovare il coraggio per ricominciare la staffetta dei nostri diritti!
Questo è il mio augurio per un 8 marzo dei diritti di tutte le cittadine e di tutti i cittadini, non solo a quelli maschi, non solo a quelli bianchi, ma a tutti, proprio a tutti.

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