</<Ieri a Roma, si è svolta la terza edizione della marcia per la vita, mentre in Europa soffia vento di offensiva contro le leggi che garantiscono alle donne un’interruzione di gravidanza legale e sicura per la loro salute e si raccolgono le firme perché il diritto europeo riconosca lo statuto dell’embrione: One of us, Uno di noi, si chiama la campagna.
In testa alla marcia una croce in legno con sopra dei finti feti.
Due ragazzi molto sorridenti mostrano delle scarpine da neonato, ne hanno una scatola piena. Una suorina, anch’essa gioiosa, tiene in mano il cartello con l’immagine grigia di quello che sembra un feto.
Le voci dalla manifestazione dicono: abominio, vergogna. I cartelli ribadiscono: ogni aborto è un bambino morto, strage, genocidio…
Come rispondere al portato fortemente aggressivo e giudicante di queste immagini, alla nuova tappa di un’offensiva mai finita – anche stavolta un papa, Francesco, approva e benedice – contro l’autodeterminazione delle donne e contro la legge 194? Un altro racconto, il nostro, deve saper capovolgere la prospettiva, ribadire alcuni punti generali e altri che stanno in un’esperienza che nessuno – in nome di una fede, di una ideologia – può espropriare a chi la vive, le donne appunto.
L’aborto non può essere eliminato dalla storia umana tantomeno proibendolo e vietarlo causa morte o pesanti ripercussioni sulla salute delle donne: nel 2008, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, in tutto il mondo 47 mila donne sono morte per aborti insicuri e 8 milioni e mezzo hanno avuto gravi conseguenze fisiche. Il problema, oggi in Italia, è che una legge dello Stato è messa a rischio dal ricorso elevatissimo all’obiezione di coscienza: i dati reali sono più elevati di quelli ufficiali, i pochi non obiettori sono spesso troppo vicini alla pensione, mentre dalla Svizzera ci raccontano già che le pazienti italiane degli ospedali nei pressi del confine sono il 40 per cento e la sensazione riferita dai medici è che i colleghi le spediscano lì per lavarsene le mani.
Dietro questi numeri, questi dati, ci sono concretissime vite, ci sono donne – talvolta coppie quando la scelta è condivisa ma non sempre accade – che hanno deciso di non potere o volere accogliere una nuova vita. Lo hanno fatto da soggetti morali, responsabili, consapevoli, cui tocca la prima parola e l’ultima, come diceva uno slogan di tanti anni fa. Non dunque in nome di una presuntuosa autosufficienza del femminile, ma perché l’esperienza della gravidanza come della sua nterruzione è, nel suo attraversare il corpo delle donne e molto altro, ineludibilmente asimmetrica tra i sessi.
Al convegno del 9 marzo a Milano, quello in cui abbiamo presentato il Manifesto per la piena applicazione della194 (http://www.change.org/it/petizioni/manifesto-per-la-piena-attuazione-della-legge-194-78 ) la filosofa Caterina Botti lo ha ricordato, provando a rovesciare il modo più consueto di parlare di aborto persino da parte di chi difende la legge: come del male minore rispetto ai guai provocati dalle interruzioni di gravidanza clandestine.
“Se c’è qualcosa di cui tenere conto non è la sacralità dell’embrione, ma il rispetto che dobbiamo e la responsabilità che ci prendiamo nei confronti di chi verrà al mondo”, ha argomentato Botti. E ancora: “La questione reale è la sostanza di quell’esperienza e la sua valutazione nei termini della responsabilità e della libertà femminile”. Libertà che, da sempre, spaventa e suscita necessità di controllo: sul corpo delle donne, il tema è sempre chi decide. Ripartire da qui, dall’essere le donne detentrici di questa esperienza e del suo racconto più vero e fedele, variegato quanto lo è ogni vissuto, ogni gioia, ogni lutto, ogni sfida sembra la prima risposta alla nuova offensiva. Ed anche il modo migliore per difendere una buona legge e pretendere che venga applicata e che ciascuna donna, ovunque viva in questo paese, vi possa ricorrere senza che la sua responsabile scelta si trasformi in una corsa a ostacoli.