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Rosangela Pesenti è scrittrice e poeta, formatrice sui temi dell’abitare, del disagio, della gestione nonviolenta dei conflitti, della differenza di genere e della storia politica delle donne.
Il 30 settembre arriva a Roma dalla periferia della pianura padana, perché come le piace dire: «solo quando le periferie si muovono, un paese cambia davvero».
È laureata in filosofia con un dottorato in antropologia ed epistemologia della complessità e fa parte del direttivo di Udi, Unione donne in Italia.
Alla Casa internazionale delle donne di Roma sarà presentato il suo libro “Racconti di case. Il linguaggio dell”abitare nella relazione tra generi e generazioni” [edizioni junior, 2012]. Un testo corposo, da leggere con calma, ma scritto con un linguaggio chiaro ed efficace.
Perché hai deciso di raccontare le “case”?Perché ogni essere umano nel corso della sua vita costruisce modi di abitare e, mentre le strutture dell’abitare sono prevalentemente decise dagli uomini, che urbanizzano il territorio secondo forme che rispecchiano e conservano il dominio patriarcale, le pratiche dell’abitare sono appannaggio delle donne: sia negli aspetti di lavoro obbligato, sia in quelli che riproducono le grandi culture del vivere. Partire dalla casa, come luogo materiale che conserva l’asimmetria di potere tra i generi, significa rendere visibile il punto da cui tutti e tutte si parte, da cui non si può prescindere.
Nel libro ho cercato di affrontare una questione difficile, non per l’oggetto, che ci è così consueto da sembrare banale, ma perché propongo una sorta di torsione dello sguardo, un cammino su piste poco battute. È come chiedersi cos’è un armadio: crediamo di saperlo solo perché lo usiamo senza pensarci? L’armadio, come la casa, è contemporaneamente una parte della nostra intimità e il terminale di un complesso sistema produttivo e mercantile.
La casa è centrale nell’immaginario femminile perché è imprescindibile dall’avventura del vivere. L’attaccamento delle donne alla casa non è solo frutto della costrizione al casalingato, ma anche la capacità, spesso inconscia, di conservare le pratiche della sopravvivenza umana, minacciate dalla forma capitalistica del dominio patriarcale e ancora di più dalla sua crisi. La mia è una proposta politica che prescinde dal politichese corrente.
Che differenza c”è fra la casa e il luogo che ognuna di noi sente più proprio?
Il luogo che ognuna sente proprio è casa. Fare casa è una pratica che include tutto il lavoro simbolico con il quale ci autorappresentiamo, trovando e costruendo nel luogo stesso quelle corrispondenze misteriose che definiscono il nostro personale stare al mondo, e tutto il lavoro materiale con cui ci costruiamo un riparo fisico in cui si rigenera il nostro corpo inerme dormendo, lavandoci, mangiando, riposando, ecc. Per questo la casa va annoverata tra i diritti umani fondamentali a prescindere dalle forme che il nostro immaginario vi deposita e dalle risorse che ne rendono o meno possibile l’accesso.
“Si oltrepassa una soglia e si entra in un mondo”, affermi ad un certo punto: cosa ti è rimasto nel cuore – che non hai potuto restituire nell”indagine scientifica – delle interviste che hai fatto? Cosa è più difficile da restituire di questo mondo in cui si entra?
Molta parte del sistema-casa esprime i sentimenti più profondi, che ovviamente ho protetto perché la ricerca etnografica non è una forma di voyeurismo sociale.
Ho cercato di restituire, nella parte dei racconti, quell’unicità del carattere, quel genius loci di cui gli abitanti stessi non erano consapevoli in quanto partecipi del sistema stesso. Si tratta di un racconto quasi fotografico, che fissa per un momento ciò che è mobile e in continuo mutamento.
Le differenze maggiori fra il punto di vista degli adulti e quello dei bimbi sulla casa che abitano?
Mi ha colpito l’immediatezza con cui i bambini sanno esprimere il carattere della casa perché hanno la capacità di vivere intensamente il presente. Per gli adulti la casa è anche la sua storia, intrecciata con la loro; sovrappongono passato e futuro finendo col perdere di vista il presente. Insieme al libro ho scritto alcuni saggi, pubblicati in altri volumi, su come bambini e bambine utilizzano il gioco della casetta o del fare casa come processo di costruzione del sé.
Il gioco, percepito e proposto come femminile, sottrae ai piccoli maschi uno spazio immaginativo e cognitivo fondamentale per crescere.
Scrivi: “la casa è forse il più importante laboratorio di costruzione dell”immaginario individuale su di sé e sul mondo”, eppure, lo sappiamo bene, la casa è anche luogo di chiusure stereotipate, modelli tradizionali che si ripetono. Rispetto alla relazione fra generi e generazioni che tu indaghi, quali gli stereotipi e quali le sperimentazioni e punti di rottura.La casa è costruita e ti costruisce. Diventare consapevoli dei modelli che dispongono i mobili e gli oggetti è un processo simile al percorso di comprensione dei significati della lingua con cui ci raccontiamo, deposito della cultura famigliare, sociale, territoriale in cui ci accade di nascere. Si tratta di una cultura costruita e trasmessa prevalentemente dalle donne, la cui mortificazione mina alla radice i processi della conoscenza e minaccia la nostra stessa sopravvivenza. La visione per cui madri e padri sono un problema per l’organizzazione del lavoro e l’allevamento della prole, un’attività che produce solo costi è una patologia così grande che attacca il bene più prezioso della nostra specie: la vita stessa.
La casa è la nostra terza pelle, il nostro inconscio, individuale e collettivo.
Qual è il rapporto fra la casa e il corpo che ugualmente abitiamo?
Noi siamo il corpo e il corpo non può essere che abitante. Capire il modo in cui facciamo casa, non solo nel luogo di residenza, ma nei tanti luoghi abitati, significa diventare un po’ più consapevoli dei processi profondi che ci legano alla casa in cui viviamo e per continuità al territorio, all’intero pianeta e all’universo. Guardare il mondo dalla nostra casa può aiutarci a immaginare un futuro diverso radicandone la possibilità nella necessità delle pratiche quotidiane.
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