Taranto-Bucarest: sulla rotta delle badanti | Giulia
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Taranto-Bucarest: sulla rotta delle badanti

'Réportage da un viaggio in bus lungo due giorni
attraverso l''Europa, con le migranti rumene. L''audiodoc di questa storia ha vinto il Premio Rossi. Di [Flavia Piccinni]'

Taranto-Bucarest: sulla rotta delle badanti
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5 Ottobre 2013 - 19.15


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C’è un filo invisibile che collega l’Italia alla Romania. È un filo fatto di asfalto e di pneumatici. È un filo fatto di sguardi, e di capelli tagliati corti. Profuma di orecchiette al sugo, ma ha il sapore del goulash.
Questo filo di seta parte dalle vite delle nostre nonne e delle nostre mamme, e arriva alle storie di altre donne – di altre nonne, di altre mamme – in Romania. A fare la spola fra i due universi ci sono degli autobus di linea e dei pulmini illegali che quasi ogni giorno partono da tutte le nostre città e si mettono in viaggio per oltre duemila chilometri. È un cammino lungo, dura più di quaranta ore, ed è costellato da soste continue, da paesaggi che dal finestrino cambiano, si sovrappongono, si fanno storie e racconti.

“Sarà il viaggio più lungo della mia vita” penso, quando sto per salire sull’autobus alla stazione di Taranto. È una sera di marzo, ho nella borsa il microfono e un registratore, nelle orecchie i racconti di voci dell’Est che hanno punteggiato le mie ultime settimane e che hanno provato tutti a rispondere alla stessa domanda: cosa significa fare le badanti? Perché, come ho imparato a capire incontro dopo incontro, entrare nella casa degli altri non è solo un lavoro. Perché occuparsi della nostra memoria – di quei nonni e di quegli zii, di quegli anziani che hanno fatto la guerra e spesso hanno conosciuto la resistenza e con lei la fame, la disperazione, il boom economico, l’utopia della crescita infinita e l’attuale crisi, la recente dimenticanza – è qualcosa che spesso non viene considerato come ciò che è, ovvero la violazione del passaggio di testimone da una generazione all’altra.

La prima cosa che mi sorprende, salendo sull’autobus, è quanto questo sia lungo e stretto. Intorno a me ci sono una ventina di signore impegnatissime a scartare panini avvolti nella carta stagnola e a pescare patatine da grandi sacchetti trasparenti. Non c’è tempo per le presentazioni: l’autobus riparte subito, e allora mi metto seduta e comincio a guardare fuori dal finestrino. Sono anni che mi domando di cosa è fatto questo viaggio che in modo tanto mitico – è pericoloso! è tremendo! è bellissimo! – mi è stato raccontato.
E poi, è proprio vero: se poco sappiamo delle donne che si prendono cura dei nostri anziani, ancora meno conosciamo delle città da dove arrivano e del viaggio che compiono per arrivare in Italia, spesso cariche di bagagli e con negli occhi tante cose, il loro passato e molta nostalgia.
Neanche me ne accorgo, e l’autobus ha già macinato 500 km, poi 600, quindi 1000. Ci siamo lasciati alle spalle la Puglia, e con lei tutta l’Italia. Ormai, siamo al confine con la Slovenia.

Mentre il paesaggio scorre, penso che quando avevo dieci anni le badanti non esistevano. C’erano le donne di compagnia, che andavano a casa degli anziani a fare le visite, e restavano lì interi pomeriggi a chiacchierare. C’erano le infermiere per chi era ammalato, ma non abbastanza grave da essere ricoverato. C’era la famiglia, soprattutto, che accudiva i propri genitori e i propri nonni, e intorno faceva una maglia di gommapiuma per proteggerne il frammentarsi delle ossa, e della memoria.

In neppure vent’anni, però, tutto è cambiato. Adesso per i nostri anziani arrivano dalla Romania queste donne che mi stanno accanto. Hanno cinquant’anni, ma spesso ne dimostrano almeno dieci di più. Si chiamano Irina, Iolanta, Jancu, Dora. Vengono perlopiù dalle campagne, hanno mani ruvide e sguardi sfuggenti; parlano poco del loro passato, e le loro storie si assomigliano tutte un po’: le difficoltà finanziarie, i problemi con i propri mariti, i soldi dello stipendio che ogni giorno servono a meno, non servono a niente. Poi la telefonata di un’amica, o di una conoscente. Poi il viaggio dalla Romania, spesso in clandestinità. “Per pagarmi il viaggio mi indebitai fino al collo – mi racconta Irina, quarant’anni, occhi azzurri e infossati, capelli grigi a caschetto -. Rimasi una settimana ferma in Croazia, pensavo di aver perso tutto, ma alla fine ci portarono in una barca di notte ad Ancona: era per sei persone, noi ci stavamo in diciotto”.

E poi c’è la paura, il primo lavoro, il dover accudire un anziano pur non avendolo mai fatto prima. “Pensavo che sarebbe stato facile – mormora Dora, mentre attraversiamo lentamente la Slovenia e dal finestrino le città sono tutte innevate e i paesi si fanno sempre più sfocati; d’improvviso, diventa notte -. A Costanza, la mia città, lavoravo in un laboratorio di analisi mediche, ma guadagnavo duecento euro al mese e non riuscivo a mantenere mia figlia. Così ho lasciato il microscopio e ho preso la scopa. Il mio primo compito in Italia è stato difficilissimo. Dovevo accudire una signora paralizzata. In quella casa c’era così tanto dolore che non ho resistito, e dopo meno di due mesi sono andata via”.
Dolore è una parola che ricorre spesso nei racconti che mi fanno compagnia mentre arranchiamo verso l’Ungheria. Il dolore di dover stare accanto a una persona che soffre, il dolore per le famiglie che non accettano le badanti pur avendole assunte, il dolore che ti entra sotto la pelle quando il nonno o la nonna – come le badanti chiamano i nostri anziani – sta morendo, e poi muore e devi essere tu a vestirlo e a dargli l’ultimo saluto. La vita allora nella sua tragica routine si ripete: dover cercare un altro lavoro, dover trovare un altro nonno, trascorrere con lui gli ultimi anni della sua vita sperando che non muoia, ma anche che non soffra.

Sono le due del mattino, ma nessuno dorme. Qualcuno ascolta la musica, altri parlano fra di loro, altri ancora chiacchierano al cellulare. L’autobus si ferma e l’autista annuncia una sosta. Siamo in Ungheria e nella nostra stazione di servizio decine di uomini si accalcano in un angolo per giocare ad Albanegra, un gioco con i bicchieri vietato in tutto il Paese che gli uomini sull’autobus definiscono “pericolosissimo”, nessuno gioca ma tutti guardano.
Senza neanche accorgermene, con il vociare nelle orecchie, mi addormento. Quando mi sveglio è il momento del controllo documenti: siamo in Romania, ed è ormai è giorno. Il paesaggio davanti a me è tutto uguale. Campagne, pochi alberi, qualche casa messa male. D’improvviso l’autobus si ferma e noi rimaniamo tre ore al freddo, in mezzo al niente. La motivazione non permette alternative: un altro autobus della compagnia poco prima il confine con l’Ungheria si è rotto, e così il nostro deve andare in soccorso. “Capita tutte le volte” mi spiega Dora, che ormai sorride come chi sa di essere vicino a casa.

Per noi arriva un altro autobus proveniente dalla Germania. Appena lo vedo, dopo tre ore trascorse in mezzo al nulla e al freddo, mi sembra un miracolo. Il viaggio ricomincia fra soste continue, persone che si sentono male, altre chiacchiere. Tutti hanno voglia di parlare, quasi nessuno di ascoltare. Quando arriviamo a Brasov, una città di montagna che è l’ultima tappa prima di Bucarest, alla stazione ci sono dei bambini – avranno cinque, sei anni – che chiedono l’elemosina. Sono soli, abbandonati. Le badanti fanno a gara a offrire loro un panino, una mela; “poverini” mi dice Irina.

Non so come sia potuto accadere, ma si è venuto a creare un clima da gita scolastica e si sta bene, anche se il viaggio mi sembra un’interminabile epopea nel cuore dell’Europa. Poi, quando meno ce lo aspettiamo, l’autista annuncia che stiamo per arrivare. Guardo fuori dal finestrino, ma è così buio che non si vede niente. Sono trascorsi più di due giorni – due giorni per un tragitto che un aereo impiega meno di due ore a fare – ma finalmente siamo arrivati, e appena vedo i vialoni di Bucarest mi sento felice. Quando sono partita, non sapevo che cosa aspettarmi e cosa cercare, ma molto ho trovato. Ho capito, soprattutto, come mi ha spiegato Rodica che abita in Italia da dieci anni che “sì, noi veniamo per i soldi, ma senza un po’ di cuore questo lavoro non lo puoi fare”.

Flavia Piccinni (Taranto, 1986), giornalista e scrittrice, ha curato due antologie, e pubblicato Adesso Tienimi (Fazi, 2007) e Lo Sbaglio (Rizzoli, 2011). Ha curato la riscoperta e la riedizione del romanzo perduto di Irene Brin, Olga a Belgrado (Elliot Edizioni, 2012). Collabora con numerosi giornali e con Radio3 Rai. Fa parte della redazione di Nuovi Argomenti. Il suo ultimo libro è La mala vita (Sperling&Kupfer, 2012). Ha ideato e organizzato il festival di audiodocumentari Audiodocumentari in città.
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