Santo Della Volpe, una vita per il giornalismo | Giulia
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Santo Della Volpe, una vita per il giornalismo

L’informazione come dovere e come diritto dei cittadini a essere informati: il nostro ricordo di Santo Della Volpe

Santo Della Volpe, una vita per il giornalismo
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11 Luglio 2015 - 21.24


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Ha testimoniato sino all”ultimo per i valori in cui credeva (e crediamo), Santo Della Volpe. Non per eroismo, ma per ineluttabilità, “poichè di queste cose è fatta la mia vita”. Tutte noi potremmo portare ciascuna un ricordo – chi come collega Rai, chi come rappresentante sindacale, chi come militante d”Articolo21 o del gruppo di Fiesole, chi anche solo come sua telespettatrice – e costruire assieme un mosaico alla memoria. La nostra associazione, per cui aveva amicizia e una consonanza profonda, lo fa con le parole di Alessandra Mancuso, ora alla presidenza della Cpo-Fnsi.

E’ stato uno dei suoi ultimi interventi pubblici da presidente della Fnsi. Il 16 giugno, per l’insediamento della Commissione Pari Opportunità, ha rivolto un saluto alle colleghe: “C”è bisogno di una componente sindacale femminile, perché dalla specificità delle donne, in questo lavoro, possono emergere forze di solidarietà. In questa fase le donne soffrono di più la crisi”. Parlava con un filo di voce e stava male. Dopo la riunione, ringraziandolo, e invitandolo a riposare di più, mi aveva risposto come altre volte negli ultimi mesi: “è questa la mia vita”.

Tra gli alti e bassi delle cure, non si è mai risparmiato, neanche quando la malattia lo rendeva faticoso. Amava la vita che aveva scelto, l’impegno per affermare principi e valori in cui credeva. L’informazione come dovere e come diritto dei cittadini a essere informati; il rigore che non faceva sconti al potere; le inchieste per illuminare i temi più trascurati: le morti per l’amianto, l’Iraq abbandonato dopo la guerra, le vittime della Thyssen che chiedevano giustizia. Era per noi, colleghe e colleghi della Rai, l’esempio di come doveva essere un giornalista del servizio pubblico. Non inseguiva la carriera, che pure avrebbe meritato se solo la parola “merito” avesse un senso alla Rai. E non si tirava mai indietro, che si trattasse di professione o di impegno sociale e sindacale.

Anche al congresso di Chianciano, alla delegazione romana che lo invitava ad accettare la candidatura a presidente, non aveva nascosto il cancro contro cui combatteva. Non si era tirato indietro, neanche quella volta. Il discorso, alle due di notte, dopo l’elezione, è stato uno dei pochi momenti alti e belli del congresso. Citava Don Ciotti, le parole di Pippo Fava sulla nostra professione e “il futuro non è ancora scritto” di Joe Strummer, dei Clash. Le sue parole riflettevano i nostri valori, la nostra storia, le nostre speranze. Uno di noi.

Dopo il Congresso, ha sostenuto con convinzione, la necessità di abbandonare le vetuste spoglie delle “componenti”, di aprire porte e finestre, mescolare il sangue, dar vita a un nuovo laboratorio politico per rinnovare e riformare il sindacato. E a Fiuggi, dove quel tentativo ha preso corpo, ci ha regalato altre intense parole, sempre con un filo di voce, spronandoci ad alzare lo sguardo, parlando dei giornalisti vittime della repressione in Turchia. Andare oltre ai recinti. Lo ha sempre fatto. Mettendo in comunicazione il sindacato e la professione con il mondo delle associazioni. Dal gruppo Abele, a Torino, alla Tavola della Pace, telecronista anno dopo anno, per il Tg3, della marcia Perugia-Assisi. Da Articolo 21 a LiberaInformazione, raccogliendo il testimone da un altro grande giornalista come Roberto Morrione. Ci hanno lasciati tutti e due troppo presto e per una beffa del destino, portati via dallo stesso male.

E” stata una fortuna conoscerlo, essergli amici. E’ stato bello tutto quello che abbiamo fatto con lui, le “cause” da sposare non bastavano mai. Ricordo quando fondammo “Schiene Dritte”, nel 2005, contro il bavaglio berlusconiano alla Rai, o quando, due anni dopo, ci coinvolse nel movimento dei Centoautori, un movimento per la cultura che partiva dal mondo del cinema: “dimostriamo che noi giornalisti non siamo rinchiusi nel nostro orto”, diceva. Aveva scritto un appello: “Un paese che non fa cultura non può chiamarsi Italia, una società che non crea, e non costruisce con le parole,le immagini, i disegni , i numeri e l”intuizione, è destinata a sgretolarsi ed a non sopravvivere a sè stessa…. Oggi è possibile costruire una “poesia” della vita, una nuova pagina della nostra società….Un nuovo Umanesimo è possibile”.

Era un sognatore Santo, e amava la vita. Il suo paradiso di Pantelleria, il mare, il buon vino, di cui era intenditore, la cucina, la musica rock, De Andrè. Per i suoi “sexanta” (come era scritto sulla torta), il 12 aprile, nel teatro romano in cui lo festeggiavamo, aveva compilato la playlist del cuore dividendosi tra la consolle e i balli scatenati con Teresa. Era felice, sereno. Siamo stati bene. Stava bene. Così lo ricorderemo. Cercando di portare avanti la sfida comune per la liberta e la legalità. Per una professione al servizio delle cittadine e dei cittadini.

Con la schiena dritta, la passione e la speranza di un collega che abbiamo sempre sentito al nostro fianco, di donne e giornaliste. Grazie Santo.

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