Cara marescialla, noi siamo anche le parole che usiamo

La comandante del CC rifiuta di definirsi marescialla, un uomo interviene in difesa della declinazione di genere

Cara marescialla, noi siamo anche le parole che usiamo
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22 Dicembre 2016 - 17.07


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Se è vero che “la giustizia di genere non si conquista con una desinenza”, è altrettanto vero che la lingua riflette la cultura e che il linguaggio militare come molti altri è erede di una tradizione quasi esclusivamente maschile”. Così comincia la lettera aperta che il presidente del Consiglio regionale del Piemonte, Mauro Laus, ha inviato a Michela Veglia Balangero, prima donna comandate dei Carabinieri della caserma di Cumiana nel Pinerolese, dopo aver letto su La Stampa alcune sue dichiarazioni contro l’uso del termine “marescialla”. Dichiarazioni che anche altri quotidiani hanno ripreso, come [url”Repubblica”]http://torino.repubblica.it/cronaca/2016/12/20/news/michela_primo_comandante_donna_dei_carabinieri_nel_torinese_ma_non_chiamatemi_marescialla_-154534031/[/url], mentre altri ne hanno fatto occasione di dileggio, anche volgare. Come [url”Il Giornale”]http://www.ilgiornale.it/news/cronache/lezione-carabiniere-boldrini-non-chiamatemi-marescialla-1344814.html[/url] – Lezione di carabiniere a Boldrini: non chiamatemi marescialla” – o testate online di destra ([url”Riscatto Nazionale”]http://www.riscattonazionale.it/2016/12/21/cumiana-comandante-dei-carabinieri-sfancula-boldrini-boschi-non-chiamatemi-marescialla/[/url], [url”Catena Umana”]http://catenaumana.com/boldrini-umiliata-lezione-del-carabiniere-non-chiamatemi-marescialla/[/url], …).

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Prosegue quindi Laus: “Professioni e funzioni, un tempo ricoperte in maniera esclusiva o prevalente dagli uomini, sono oggi svolte indifferentemente da entrambi i sessi, proprio per questo l’adeguamento linguistico ad un uso più corretto della grammatica italiana, di cui tanto si sta discutendo in questi mesi, ha ragione oggi più che mai di essere condiviso e comunicato anche al di fuori degli ambienti accademici, per fugare la convinzione, diffusa, che usare certe forme femminili rappresenti solo un vezzo. È un dato di fatto che le parole concorrano a formare le identità individuali e collettive e che costituiscano, pertanto, un potente mezzo per l’affermazione o, al contrario, la negazione dei diritti. Sono certo che il fatto di chiamarla “marescialla” non aggiungerà nulla di più alle sue competenze e all’integrità con cui svolgerà il ruolo a cui è stata chiamata, ma allo stesso tempo, mi sento di dire, che non toglierà nulla. Mi chiedo, dunque, perché tanta riluttanza a correggere un linguaggio figlio di consuetudini sbagliate e di vecchi stereotipi? Siamo anche le parole che usiamo, è questo il concetto che a mio parere dovrebbe passare a tutti i livelli della società, affinché lo sviluppo dell’identità di genere e il riconoscimento della piena dignità e parità del genere femminile diventi requisito indispensabile per la formazione personale, culturale e sociale delle nuove generazioni. Forse non basterà ma è un inizio ed è un bene che se ne parli”.

Giulia farà dono alla marescialla d’una delle poche copie rimaste del manuale “Donne, grammatica e media”.

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