Il 2020 è stato scelto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come anno internazionale delle infermiere e ostetriche. Un riconoscimento per valorizzare e ribadire il fondamentale ruolo svolto dalle donne nel settore della salute in tutti i paesi del mondo. Donne sono, infatti, la maggioranza degli operatori sanitari, ma a livello globale persiste, ed è evidente nei dati, una differenza significativa nella retribuzione e nei ruoli. L’Europa, e in particolare l’ Italia, non fanno eccezione. E proprio mentre l’emergenza Corona virus ha mostrato una moltitudine di medici, uomini e donne, e di infermieri, soprattutto donne, impegnati ad affrontare una crisi inaudita con estrema professionalità e spirito di sacrificio, si è cominciato a parlare di questa grave realtà di discriminazione.
Da chi è composta per cominciare la categoria dei lavoratori della sanità? In Italia gli ultimi dati disponibili pubblicati dal Ministero della Salute relativi al 2017 mostrano che il 66,8% del personale del Servizio sanitario nazionale è composto da donne, contro il 33,2% di uomini. Nel nostro Paese le donne rappresentano il 56% dei medici iscritti all’albo e sono quasi il doppio degli uomini tra i medici di meno di 40 anni. Eppure ancora oggi solo un terzo dei primari è donna: in Chirurgia in particolare le donne primarie sono 5, cinque anni fa ce n’era solo una. I primari maschi in Chirurgia sono 300. La disparità si rileva anche per quanto riguarda le assunzioni: sempre in base ai dati del Ministero della Salute, nel 2017 i medici assunti erano 125.307, di cui poco più di un terzo donne (45.701). Quasi tutti i medici erano a tempo pieno ma dei 956 assunti part-time, ben 873 erano donne.
Come evidenzia una indagine OMS sul rispetto dell’equità e della parità di genere nella forza lavoro in ambito sanitario relativa al 2019 (il titolo :“Delivered by women, led by men.” la dice lunga sulla situazione mondiale) anche negli altri paesi del mondo anche se le donne rappresentano il 70% , sono gli uomini a detenere i ruoli dirigenziali. A capo delle organizzazioni sanitarie internazionali è diretta nel 69% dei casi da uomini e l’80% degli amministratori delegati sono maschi. Solo il 20% delle organizzazioni sanitarie hanno parità di genere nei loro assetti e il 25% ha l parità nei ruoli più prestigiosi al suo interno.
Ma c’è anche un’altra disparità che si fa sentire a livello globale, ed è la differenza di retribuzione tra dipendenti maschi e femmine che ricoprono gli stessi ruoli. Nel mondo, il Gender Pay Gap in sanità è superiore del 26% circa rispetto alla media degli altri settori e – elemento su cui l’OMS punta l’attenzione – ciò non è connesso ad altri fattori come per esempio il livello di istruzione.
L’Italia appare in questo caso, più virtuosa degli altri Stati, avendo un Gender Pay Gap che si assesta sul 5,5%: nulla in confronto al 19% del Regno Unito e al 15,8% della Francia o al 15% della Spagna al 18% degli Stati Uniti. Nel 2016 il divario retributivo di genere medio in Europa mediamente era del 16,2 %. Ma c’è un problema : se si misura il divario retributivo di genere complessivo, cioè la differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini, il dato cambia radicalmente. Perché questo calcolo tiene conto dei tre principali svantaggi affrontati dalle donne: retribuzione oraria inferiore; meno ore di lavoro retribuito; minore tasso di occupazione (ad esempio a causa di interruzioni di carriera per prendersi cura di figli o famigliari). Il divario retributivo di genere complessivo in Italia risulta quindi del 43,7%, contro il 39,3% nella Ue.
Torniamo all’emergenza Covid. Alla situazione critica del personale sanitario di sesso femminile, costretto anche ad un prevedibile tour de force tra casa ( figli da accudire, gestione familiare durante il lockdown con partner spesso refrattari alla condivisione ) e turni di lavoro, si aggiunge la maggiore esposizione al contagio.
Sono più di 28mila i contagi di origine professionale denunciati all’Inail tra la fine di febbraio 2020 e lo scorso 21 aprile. Il 45,7% riguarda la categoria dei “tecnici della salute”, che comprende infermieri e fisioterapisti, seguita da quella degli operatori socio-sanitari (18,9%), dei medici (14,2%), degli operatori socio-assistenziali (6,2%) e del personale non qualificato nei servizi sanitari e di istruzione (4,6%).
Il 71,1% dei contagiati sul lavoro sono donne e il 28,9% uomini, con un’età media di poco superiore ai 46 anni. Tra gli infermieri e gli altri tecnici della salute, in particolare, più di tre denunce su quattro sono relative a lavoratrici. Il 12,6% dei casi riguarda invece lavoratori stranieri, tra i quali però la percentuale delle donne è pari all’80%. Un dato che stupisce se si considera che le donne sono mediamente meno colpite degli uomini dal virus, ma che trova una sua spiegazione nel fatto che numericamente le donne rappresentano i due terzi del personale sanitario.
In questo quadro non esemplare c’è chi sta cominciando a chiedere anche più parità nella gestione dell’emergenza. Tra i tanti, un gruppo di 71 scienziate e ricercatrici di livello internazionale che pochi giorni fa hanno affidato alle pagine del Corriere della Sera una lettera di protesta e rivendicazione del loro ruolo. “Pretendiamo un equilibrio di genere”, hanno scritto, come priorità assoluta nella nomina delle commissioni tecniche formate dal Governo, ricordando che molte scienziate italiane sono ai vertici della ricerca biomedica internazionale.”Quando si effettua una selezione di competenze e qualità la scelta dovrebbe essere in base al merito” aggiungono. Se questo fosse stato il criterio adottato, molte donne sarebbero entrate nelle task force e sicuramente ne avrebbe beneficiato la gestione dell’emergenza.