Franca Leosini. Omaggiata dalla critica. Da 25 anni con le sue Storie maledette su Raitre, “ruba l’anima a chi intervista”, come dice lei: tutti – colpevoli e innocenti – sotto il maglio delle sue interviste diventano lo strumento per narrare “l’inquietudine della società contemporanea”. Perché Leosini è attenta a non farsi giudice. Di solito…
Stavolta invece è stata proprio lei a provocare una storia maledetta, mettendo in croce davanti alle telecamere una donna – in carcere per aver fatto uccidere il marito maltrattante: al racconto sulle angherie subite in un rapporto violento, Leosini ha replicato severa: “Un quoziente di responsabilità ce l’ha anche lei Sonia, come tutte le donne che al primo schiaffone non mollano l’uomo che si è permesso di darglielo… Perché lei non l’ha mollato?”. Luoghi comuni, stereotipi, insulti, sessismo, cinismo.
Responsabile di essere la mandante dell’omicidio, per la giustizia sì; ma quell’accusa di essere responsabile degli “schiaffoni” ricevuti dal marito ha lasciato attoniti tanti nel pubblico in ascolto. E non solo le donne. Perché si stava accanendo così su di lei? Perché una giornalista trasforma una intervista televisiva – lei, col potere del microfono e della telecamera – in una aggressione all’intervistata?
Può? Non è questione (non solo) di deontologia professionale. C’è anche una morale e un’etica della comunicazione. C’è la dignità della persona, e la dignità della donna.
Il segretario del sindacato dei giornalisti Rai, Vittorio Di Trapani, è intervenuto subito durissimo con un tweet: “L’intervista a Sonia Bracciale di Franca #Leosini è piena di luoghi comuni tipici di quando si parla di violenza sulle donne. La #Rai Servizio Pubblico ha il dovere di attenersi al rigoroso rispetto del Manifesto di Venezia. La violenza sulle donne non ha mai giustificazioni né attenuanti”.
È scritto tutto lì, in quel “manifesto di Venezia” voluto e firmato anche da GiULiA, un decalogo che impegna all’attenzione nel linguaggio, in particolare quando si tratta di casi di violenza. Un “manifesto” che la Rai ha inserito nelle sue carte.
Lettera aperta alla Rai
Dalla Casa delle Donne di Roma, da Lucha y Siesta, insieme a tante altre associazioni e singole donne anche con ruoli pubblici, è partita una lettera aperta alla Rai: “Come donne, operatrici, avvocate, psicologhe e amministratrici coinvolte nella rete di contrasto alla violenza di genere rifiutiamo con forza questa lettura che si alimenta di giudizi a priori contro le donne che vivono la violenza domestica e fomenta le peggiori conclusioni, che con poco diventano senso e opinione comune.
Noi lo diciamo chiaro che una donna, quando vive una violenza, non è responsabile della violenza che subisce, lo è la mano che le si scaglia contro e la voce che le urla addosso. Lo siamo tutte e tutti se non agiamo il ruolo di contrasto, prevenzione e sensibilizzazione che ci compete. Perché la violenza si contrasta se si previene alla radice e quando si sensibilizzano le persone circa le sue forme, non è possibile esimersi da un intervento integrato e complesso.
Molte donne sono spesso sole nell’inferno senza poter pensare ad altro. Sole in una cultura che legittima la violenza “perché vedrai che tuo marito cambia”, “signora senza referto in ospedale non possiamo fare niente”, “signora torni a casa, ora non abbiamo tempo”, “signora capiamo la situazione, ma non abbiamo un posto dove farla dormire stanotte” ,”lei cosa ha fatto per farlo arrabbiare”. Lo sentiamo dire di continuo nei luoghi che dovrebbero, invece, essere un rifugio sicuro come i presidi socio-sanitari e le stazioni delle forze dell’ordine e non possiamo accettare che la televisione pubblica colpevolizzi una donna che per anni ha sofferto, facendo venir meno le proprie responsabilità nei confronti di un pubblico ampio ed eterogeneo che guarda da casa.
La Rai e altri protagonisti della comunicazione devono giocare un ruolo nel decostruire lo stereotipo che agisce violenza e nel costruire insieme gli strumenti comuni, senza giudizi e pregiudizi sui vissuti personali troppo dolorosi da sostenere da sole. Per fare questo serve formare i giornalisti e le giornaliste contro gli stereotipi di genere e le narrazioni tossiche che vediamo sfilare su tv e giornali, come ci chiede la Convenzione di Istanbul e il Manifesto di Venezia per il rispetto e la parità di genere nell’informazione.
Tutte vogliamo un servizio pubblico in grado di fare ciò e metterci nelle condizioni di esercitare il diritto a vivere una vita libera dalla violenza.
Prendiamolo come impegno.”
Il comunicato di Di.Re
Di.Re., Donne in rete contro la violenza, in un comunicato denuncia “un concentrato di insinuazioni, stereotipi sessisti, giudizi moralistici, colpevolizzazioni per la violenza subita, e giustificazioni del maltrattante in prima serata Tv. Si chiama vittimizzazione secondaria, succede ancora continuamente nelle aule dei tribunali, dove le donne che denunciano la violenza non sono credute”. Antonella Veltri, presidente di D.i.Re, continua: “Ieri questo trattamento è stato imposto a Sonia Bracciale, condannata a 21 anni e 2 mesi di carcere come mandante dell’omicidio del marito che per anni l’ha riempita di botte, umiliata, maltrattata, da Franca Leosini nel suo programma Storie maledette su RAI 3”.
“Da anni i centri antiviolenza subiscono le richieste da parte giornalistica di dare storie delle donne, meglio se le donne stesse, chiedendoci di fare da tramite per raggiungerle”, afferma Manuela Ulivi, presidente di CADMI, Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano. “Lo scopo è sempre lo stesso: mostrare gli orrori subiti, le miserie vissute, ma con tutte le “precauzioni” del caso: anonimato, volto coperto, voce alterata, finendo per nascondersi loro come se dovessero vergognarsi, o peggio fossero responsabili della violenza subita dagli uomini”.
“Al di là dell’incompetenza con cui una giornalista si permette di parlare a una donna che ha subito violenza senza avere una formazione e gli strumenti di base per affrontare un discorso tanto delicato, quanto complesso”, prosegue Ulivi, “ciò che emerge prepotente e insopportabile è l’eterno giudizio verso le donne che non se ne sono andate per tempo dal violento. Neppure quanto vengono ammazzate, si smette di giudicarle”.