Ha suscitato grande indignazione la notizia dell’esistenza di un’area del cimitero Flaminio di Roma dove una donna ha trovato una croce con il proprio nome, corrispondente alla tomba del feto che aveva abortito mesi prima. La sua denuncia su Facebook, rilanciata da molte testate, è arrivata anche al Garante della Privacy, che ha aperto un’istruttoria sul caso.
Sono circa 20 anni che in tutta Italia si costruiscono aree cimiteriali dedicate alla sepoltura dei feti, come spiego in un articolo su The Vision. Ad agosto, dopo l’approvazione di un nuovo “Giardino degli angeli” a Marsala, ho deciso di provare a mapparli, contandone una cinquantina. L’impressione che ne ho dedotto è che si tratti però di una stima al ribasso: poiché l’inumazione dei feti è permessa e in alcuni casi obbligatoria, è normale che esistano dei luoghi per farlo. A sconcertare in questo caso è che sia stato reso pubblico il nome della donna che ha interrotto la gravidanza, anche se la pratica di inumare i feti di donne inconsapevoli è molto più comune di quanto si pensi.
La sepoltura dei feti è normata dal regolamento di polizia mortuaria del 1990, che distingue tra quelli con meno di 20 settimane di età intrauterina e quelli che l’hanno superata: per questi ultimi sussiste sempre l’obbligo di sepoltura da parte dell’Asl. Dei feti con meno di 20 settimane di gestazione, invece, se ne occupa l’ospedale, smaltendoli mediante termodistruzione. In entrambi i casi, se i genitori vogliono tenere un funerale, devono fare richiesta entro 24 ore. Alcune cliniche hanno però stipulato una convenzione con un’associazione di stampo religioso, “Difendere la vita con Maria”, che si occupa di seppellire e tenere una cerimonia qualora i genitori non vogliano occuparsene personalmente. “Vogliano” è una parola grossa: raramente una donna è a conoscenza di cosa accadrà al feto, fermo restando che, firmando il consenso informato, dovrebbe essere aggiornata anche su questo.
I soci di “Difendere la vita con Maria” ci tengono a specificare che si tratta di un’attività legale, anche se rimangono dubbi sulla divulgazione dei dati sensibili da parte delle cliniche e, più in generale, a quale titolo un’associazione di volontariato possa maneggiare quelli che in ospedale sarebbero trattati come “rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo”. Quanto accaduto alla donna di Roma, poi, è ancora più grave dal momento che la tomba era identificabile con il suo nome e cognome. Le sepolture a cura dell’associazione di solito si limitano a riportare un numero che corrisponde alla data dell’operazione, rintracciabile su un apposito registro comunale. In questo modo, se una persona ci ripensasse e volesse visitare la tomba, la potrebbe ritrovare. È quindi necessario capire chi abbia pensato che fosse una buona idea mettere direttamente il nome della donna, con una gravissima violazione del diritto alla riservatezza tutelato dalla legge 194.
Dalla mappa che ho realizzato, emerge una realtà molto diffusa in tutta Italia, con particolare concentrazione al Nord, dove “Difendere la vita con Maria” ha sede. In Veneto è stata approvata anche una legge regionale per la sepoltura di tutti i feti, indipendentemente dall’età di gestazione e dalla volontà della madre. Quello che è difficile da capire è però se all’esistenza di questi cimiteri corrisponde anche la pratica della sepoltura sistematica di tutti i feti, anche senza l’approvazione dei genitori. Quello che è certo, invece, è che siamo di fronte all’ennesima ingerenza di un’associazione religiosa non solo sulla vita quotidiana, ma anche sull’autodeterminazione dei corpi.