Una presa di posizione durissima, che accusa il governo di Varsavia di aver praticamente reso l’aborto del tutto illegale, mettendo a rischio la salute e la vita stessa delle donne contro ogni principio di autodeterminazione, di rispetto della dignità delle persone e di ragionevolezza. Il Parlamento europeo scende in campo contro lo scempio dello stato di diritto cui la classe dirigente alla guida della Polonia si sta dedicando con zelo reazionario e di cui la nuova disciplina in materia di interruzione della maternità non è che l’ennesima testimonianza, quella che rischia di avere i più immediati tragici effetti.
La risoluzione di condanna, approvata con 445 voti favorevoli (le sinistre più i liberali, i verdi e una parte del gruppo popolare), 145 no (le destre) e 71 astensioni (dalle file dei popolari), non è la solita petizione di principio che lascia il tempo che trova. È un atto politico forte e si può sperare che abbia conseguenze importanti perché impegna i governi dell’Unione proprio nel momento in cui intorno al mancato rispetto dei princìpi democratici fondamentali si sta giocando la decisiva partita dei fondi europei per la ripresa dalla pandemia. Com’è noto, infatti, rifiutando la clausola del rispetto dello stato diritto, che fu voluta proprio dal parlamento europeo, gli attuali esecutivi polacco e ungherese, seguiti da quello sloveno, hanno annunciato l’intenzione di porre il veto all’approvazione del bilancio pluriennale dell’Unione, e cioè lo strumento su cui si deve appoggiare l’emissione dei titoli europei con cui si finanzierà il Next Generation EU, il piano di ripresa e rilancio da 750 miliardi.
Per guardare alle cose nostre, i 209 miliardi che in prestiti e sovvenzioni toccherebbero all’Italia, il blocco del bilancio costerebbe, di primo acchito, il mancato arrivo della prima tranche da 20 miliardi sulla quale fa già conto la manovra finanziaria del governo di Roma.
La dignità e la libertà delle donne polacche
Ma la questione va ben al di là della pur importantissima prospettiva di assicurare una solida base finanziaria alla battaglia contro gli effetti della peggiore sciagura abbattutasi sull’Europa e sul mondo dalla fine della seconda guerra mondiale. In gioco ci sono i fondamenti stessi del sistema democratico. La risoluzione entra nel merito delle deformazioni dei princìpi che sono alla base della gravissima guerra alla libertà e alla dignità delle donne scatenata dal governo polacco di Mateusz Morawiecki dominato dal PiS, il partito sovranista e ultraconservatore guidato da Jarosław Kaczyński.
La guerra contro il diritto all’aborto è stata resa possibile dall’asservimento della magistratura al potere esecutivo, e cioè da uno dei pilastri della dottrina della “democrazia illiberale” che è stata adottata come modello non solo dal potere in Polonia, ma anche dai dirigenti ungheresi, in varie forme e dimensioni anche dagli altri paesi del gruppo di Višegrad e, fuori dall’Unione, dalla Russia di Putin, dalla Turchia di Erdoğan, dal trumpismo americano. È la teoria del sovranismo populista, in base alla quale chi vince le elezioni prende tutto il potere e può ignorare le Costituzioni e i princìpi dei diritti universali che esse prescrivono. La logica, per descriverne un aspetto “nostrano” in base alla quale gli esponenti sovranisti italiani pensano di poter respingere i giudizi dei magistrati perché “non sono eletti dal popolo”.
I parlamentari europei, infatti, dopo aver affermato che la sentenza del Tribunale costituzionale polacco di rendere illegale l’aborto anche nei casi di gravi e irreversibili malformazioni fetali (motivo del 96% delle interruzioni di gravidanza legali in Polonia nel 2019) “mette a rischio la salute e la vita delle donne” e porterebbe “a un aumento degli aborti non sicuri, clandestini e potenzialmente mortali”, denunciano che la sentenza stessa è stata presa “da giudici eletti e pienamente dipendenti da esponenti politici della coalizione di governo guidata dal partito Diritto e Giustizia”, il Pis di Kaczyńsky, appunto.
La guerra alla magistratura
Il controllo della magistratura è una delle armi principali dei maestri della “democrazia illiberale”. E non da oggi. Già nel 2012 la Commissione di Bruxelles fu costretta ad aprire una procedura di infrazione contro la decisione del governo di Budapest che, abbassando l’età pensionabile dei giudici da 70 a 62 anni, consentiva a Viktor Orbán e ai suoi di sostituire con uomini fidati i posti che si liberavano. Il governo ungherese fece ricorso alla Corte di Giustizia europea ma venne condannato. I giudici di Lussemburgo, sei anni dopo, condannarono per lo stesso motivo il governo di Varsavia, che si riservava il diritto di decidere in modo discrezionale chi doveva andare in pensione e chi doveva restare nella Corte Suprema. Ancora oggi procedure d’infrazione sono aperte contro Budapest e Varsavia per l’adozione di procedimenti disciplinari politicamente motivati contro diversi magistrati e per varie ingerenze governative nelle carriere dei giudici.
Un altro pilastro del sovranismo á la Višegrad è il controllo delle autorità monetarie. Tanto in Ungheria che in Polonia le Banche centrali sono state “messe in riga”, cosa che a Bruxelles preoccupa non solo chi ha particolarmente a cuore i princìpi democratici, ma anche certi ossessivi cani da guardia della disciplina di bilancio. C’è poi il capitolo della libertà di informazione: non solo le restrizioni censorie e l’introduzione di reati d’opinione, ma anche leggi che consentono l’ingerenza delle autorità nei media e il controllo di televisioni e radio. Tutte le richieste di modifiche di leggi e regolamenti in materia fatte dalla Commissione e da Parlamento di Bruxelles sono state respinte o ignorate allegramente. Così come provvedimenti che limitano la libertà di insegnamento, come la legge anti-Soros che in Ungheria ha respo impossibile praticamente l’attività delle università straniere.
Migranti e richiedenti asilo
Infine, tanto la Commissione che il Parlamento hanno cercato invano di far recedere i governi di Višegrad dalle patenti violazioni dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo. In Ungheria è in vigore una legge che prevede il carcere non solo per chi favorisce l’immigrazione clandestina, ma anche per chi si dedica all’assistenza degli immigrati già arrivati, anche i pochi che hanno ottenuto un permesso di restare o sono in attesa di andare in un altro paese. Fecero sensazione, mesi fa, le notizie secondo le quali le autorità magiare rifiutavano il cibo ai profughi ammassati nei campi al confine con la Serbia. Tutto lascia pensare che queste pratiche siano ancora in atto, insieme con le attività criminali delle bande anti-immigrati che vanno a caccia di immigrati clandestini con il permesso e la compiacenza delle autorità.
Polonia, Ungheria e Cechia non solo hanno ignorato l’accordo europeo del 2015 sulla distribuzione dei profughi tra i vari paesi, ma, con un atto che preludeva al veto attuale sul bilancio comunitario, hanno rifiutato di accettare la clausola della disponibilità ad accogliere la loro quota di profughi per l’erogazione del consistente flusso di fondi europei che sostiene gran parte delle loro economie.
Si è detto e scritto più volte che le istituzioni europee sono state deboli verso queste violazioni, anche se è vero che più di una volta la Commissione, e più ancora il Parlamento, hanno assunto posizioni ferme, fino a esplicite mozioni di condanna dei due governi. Orbán con un voto a maggioranza del gruppo (contro il parere degli italiani di Forza Italia) è stato sospeso dalle file del PPE, ma non si sa bene che conseguenze abbia avuto questa deliberazione. I voti di Fidesz, il partito del capo del governo ungherese, sono necessari al PPE per consolidare la propria maggioranza e il gruppo dei Conservatori e riformisti, in cui siedono con i seguaci italiani di Giorgia Meloni i deputati del PiS polacco, è spesso alleato dei popolari quando si tratta di fare fronte contro sinistre, liberali e verdi.
Dando una sponda politica forte alla straordinaria mobilitazione delle donne polacche contro l’attacco ai loro diritti, il Parlamento europeo con la sua risoluzione ha, forse, invertito la tendenza. O almeno ha dato uno scossone e chiarito ancora una volta ai governanti europei come e perché sia diventata davvero intollerabile l’inerzia nei confronti di chi pensa di poter stare in Europa senza rispettarne la civiltà dei diritti. Forse questo scossone aiuterà a superare l’impasse del veto, le cui ragioni sono state ribadite, ancora poche ore fa, da Orbán e Morawiecki. La Commissione starebbe cercando una via d’uscita che prevedrebbe, insieme con un ricorso “creativo” alle procedure dell’articolo 7 del Trattato europeo, l’intervento della Corte di Giustizia. Bisogna sperare che funzioni. Non solo per avere la certezza che i fondi vengano sbloccati, ma anche per dare un sostegno concreto alle donne polacche che stanno lottando contro una grande ingiustizia.