La compresenza di tratti comuni a culture lontane nel tempo e nello spazio offre l’occasione per evidenziare come vi sia una somiglianza comportamentale negli atteggiamenti delle comunità, intese in senso antropologico, nei confronti dei cambiamenti storici e culturali. In questo contesto possono essere inserite tutte quelle pratiche, un tempo considerate more maiorum, che, con il cambiamento culturale e l’evoluzione dei costumi, tendono a diventare obsolete e anacronistiche nella società in evoluzione. La risposta allo sgretolarsi del potere coesivo della cultura sulla comunità è spesso caratterizzata da un inasprimento e un irrigidimento delle relazioni del gruppo con l’esterno. I legami inter-gruppo, infatti, rischiano di far decadere le gerarchie interne e le consuetudini consolidate; mantenere immutato l’ordine precostituito, significa far sopravvivere storie culturali che, altrimenti, andrebbero perse nell’amalgama della società globale.
Sul piano legislativo la difesa della tradizione, nel senso etimologico di tradĕre, ‘consegnare’, è diritto inalienabile sancito dalle libertà fondamentali. Tale diritto, però, vacilla nel momento in cui, la violenza diventa lo strumento attraverso il quale perpetrare la staticità culturale. Il matrimonio forzato è una pratica ascrivibile a tale contesto, anche a prescindere da giudizi di natura etica e al di là di pregiudizi culturali. Definiamo matrimonio forzato il legame contratto in assenza di uno o entrambi gli sposi, in cui viene a mancare il consenso, condicio sine qua non degli ordinamenti legislativi occidentali.
La pratica, associata generalmente alla religione islamica, è, invece, comune sia alla memoria delle altre religioni monoteiste sia al presente di comunità professanti altre fedi. Comunità cristiane ed ebraiche hanno a lungo impedito la mescolanza tra soggetti appartenenti a confessioni diverse, il che invece di avvalorare la tesi diffusa di una chiusura delle comunità religiose, può indurre a interrogarsi sulla vera ragione di questa reticenza. Sebbene il rapporto “futura discendenza”-“appartenenza di culto”, possa sembrare vincolante nella scelta del coniuge, in realtà i valori preminenti, quelli che si intende difendere, sono quelli culturali, che permettono una maggiore coesione in casi di migrazioni massive. In questa sede non si analizzerà la problematica in una dimensione soggettiva, dei singoli, un’analisi di questo tipo non renderebbe infatti possibile lo studio dei rapporti individuo-gruppo che è la chiave interpretativa adottata in tale analisi dei matrimoni forzati, comprovata da ricerche sul campo, interviste a eminenti interlocutori, dati desunti dalle principali testate giornalistiche europee, fonti documentali prodotte da organizzazioni non governative che operano a favore di integrazione, intercultura e diritti umani.
Il connubio tra matrimonio e coercizione è riconducibile alle comunità emigrate in contesti molto lontani dai luoghi di origine; tale dato induce l’osservatore a interrogarsi sia sul ruolo socio-istituzionale positivo svolto dal matrimonio sia sulla difficoltà di emigrare portando con sé il bagaglio culturale della terra di origine. Non è a nostro avviso quindi opportuno parlare di comunità cristiane, ebraiche o musulmane, ma di popolazioni di varia provenienza geografica, italiani, irlandesi, pakistani, bengalesi o indiani che, in epoche e luoghi diversi, hanno utilizzato l’istituto del matrimonio per mantenere gli equilibri interni delle comunità all’estero. Per ragioni di riduzione del campo di analisi e per l’alta incidenza dei casi riscontrati, si farà riferimento in questo intervento alle comunità pakistane e bengalesi residenti nel Regno Unito; la rilevanza dei dati raccolti offre, infatti, la possibilità di indagare più da vicino le ragioni che spingono i genitori, nelle veci del gruppo, a esercitare violenza, fisica ed emotiva, sui propri figli. Un aiuto concreto alla ricerca è giunto dal contributo del giornalista e mediatore culturale italo-pakistano, Ahmad Ejaz, membro del Comitato per l’Islam italiano, già facente parte della Consulta islamica presso il Ministero.
L’intervista, realizzata a Roma il 9 febbraio 2009, ha permesso di guardare in modo più approfondito un fenomeno che sarebbe stato difficilmente comprensibile se analizzato solo attraverso documenti scritti e testi giuridici sul diritto islamico. Ahmad ha più volte evidenziato la circolarità della società sub-continentale: il tempo, l’identità e l’autodeterminazione del singolo sembrano essere subordinate alla coesione del gruppo al quale l’individuo appartiene. Non esiste il concetto di spazio privato del soggetto, lo spazio sociale che gli è concesso è strettamente dipendente dalle conseguenze che le sue azioni determinano nel gruppo. Emigra, almeno in molti casi e comunque nel discorso ufficiale, non per arricchirsi ma per sostentare la famiglia che spesso rimane nella terra di origine. E si sposa per mantenere intatti equilibri pre-esistenti che verrebbero spezzati se gli appartenenti al gruppo decidessero autonomamente. Il soggetto quindi non esisterebbe, secondo Ejaz, se non all’interno e in funzione del gruppo; da questa prospettiva diventerebbe comprensibile la generale accettazione e condivisione del matrimonio combinato da parte dei ragazzi provenienti dal sub-continente indiano. Il forte rapporto tra individuo e comunità è stato riscontrato sia dai lavori critici sui fenomeni migratori sia da esempi concreti forniti da Ejaz.
A suffragare tale percezione, oltre che le parole di un attore privilegiato come Ejaz, sono molte testimonianze letterarie che abbiamo avuto modo di analizzare durante le ricerche. Un esempio che può aiutare a chiarire l’opposizione tra comunitarismo delle culture sub-continentali e individualismo di quelle occidentali (fondamentale, secondo il mediatore, per capire il ruolo che il matrimonio ha a livello sociale) è lo spazio sociale concesso a un neonato in occidente e nell’area sud-asiatica. Nelle terre di emigrazione, secondo Ejaz, il figlio di immigrati viene sottoposto a una esasperazione dell’identità individuale sin dal momento della nascita, mentre nelle terre d’origine dei genitori rimarrebbe come inserito per qualche tempo in una identità di gruppo. Il neonato occidentale tende ad avere sin dai primi mesi una sua stanza con le sue cose, i suoi vestiti e i suoi giochi. Un bambino in Pakistan o nella maggior parte delle case pakistane nel mondo non solo è poco probabile che abbia la sua camera ma, come per esempio racconta Sameem Ali, nel libro Belonging, su cui torneremo diffusamente di seguito, dividerà e condividerà ogni cosa con i suoi fratelli : «She [la sorella della protagonista] pointed to the bed next to the window and said, ‘You’ll be sharing with me» (Ali, 2008: 19).
La regione del sub-continente indiano ha una sua peculiarità: le culture presenti in quest’area si influenzano reciprocamente, dando vita a una forte permeabilità a tratti culturali eterogenei. Sikh e indù, per esempio, condividono con i musulmani la pratica del matrimonio combinato, a prova della trasversalità di un tratto assolutamente indipendente da precetti religiosi. Prima di addentrarsi nell’analisi specifica dei casi, è necessario operare una distinzione tra i concetti di “matrimonio combinato” e “matrimonio forzato”: il primo è, innanzitutto, una pratica ufficiale, etnologicamente interpretabile come un retaggio di pratiche endogamiche.
La sua attuazione prevede il consenso del nubendo alla scelta del coniuge da parte di terzi, generalmente i genitori. La parola chiave è il consenso: per quanto in occidente possa ormai sembrare anacronistico, se i giovani sposi acconsentono a ricevere la guida della famiglia, tale matrimonio non può e non deve definirsi forzato. Il persistere di tale pratica evidenzia lo stretto legame tra individuo, famiglia e comunità, in forte contrasto con la visione autodeterministica occidentale, che non riesce a comprendere il valore coesivo di un istituto che è normalmente percepito come espressione per eccellenza della scelta individuale e come luogo pertinente alla vita privata dei singoli. E tuttavia nelle stesse società europee ed occidentali il matrimonio rimane diffusamente un rito che prevede la comunità. La precisazione è necessaria per focalizzare l’attenzione sull’imposizione sia del legame sia del coniuge. La forzatura avviene quindi quando il modello sociale occidentale diventa preponderante rispetto a quello di origine. Non si vuole descrivere i “modelli sociali” come entità statiche ed omogenee, ma si rileva una fase di attrito iniziale determinata dall’incontro tra culture diverse, il che può anche essere avvenga nelle terre d’origine tra le ultime generazioni, quelle della rete e le precedenti.
Lo scontro tra le prime generazioni e le successive avviene a causa della compresenza di codici comportamentali incompatibili. In questo quadro l’imposizione diventa l’unica opzione in apparenza a disposizione della famiglia per difendere la coesione sociale ma anche una certa immagine di sé del nucleo famigliare, che rimane in qualche modo tale anche per una mancata apertura al (e del) luogo di emigrazione. L’endogamia si sviluppa non all’interno della comunità ampia dei connazionali o dei correligionari, ma nello spazio ristretto della famiglia clanica; pakistani e bengalesi, infatti, praticano ancora il matrimonio all’interno del birādarī, ovvero della discendenza patrilineare. Tale prassi è spiegata talvolta da un punto di vista pratico: l’uguale provenienza e pari discendenza ed estrazione dello sposo e della sposa favorisce la convivenza; la sposa, dopo il matrimonio, lascia la sua casa per entrare in quella dello sposo: se lo sposo è un cugino o un parente prossimo, ella avrà più possibilità di mantenere il suo standard di vita e di adattarsi facilmente alla sua nuova casa, in qualche modo già familiare.
Il tentativo di conservazione, riconducibile a un sistema castale, normalmente non attribuibile ai contesti islamici, evidenzia che la permeabilità di tratti culturali fra le comunità conviventi nel contesto sud-asiatico, in cui la struttura delle caste coinvolge, in qualche modo, anche musulmani e cristiani. Una ricerca di Alison Shaw (2000), sulle comunità pakistane in Gran Bretagna, dimostra però che il grado di parentela varia a seconda del grado di istruzione. Su 24 coppie di prima generazione il 76% dei matrimoni avviene all’interno del gruppo familiare, il 59% addirittura con i cugini primi, dato che si riduce notevolmente nelle generazioni successive. Nonostante l’immigrazione pakistana e bengalese più recente sia ormai giunta alla terza generazione, l’impedimento dei matrimoni misti viene spiegato soprattutto con il ricorso alla nozione di rispetto dell’onore (izzat) della famiglia che dipende largamente dal comportamento della figlia. Si introduce allora il concetto di purdah, pratica che vieta agli uomini di vedere le donne. Suddetto costume, comune ad alcune comunità musulmane e indù, si attua in due modi: attraverso la segregazione fisica dei sessi (negli edifici: con l’ausilio di mura, tende, pannelli) o tramite l’imposizione alle donne di coprire i loro corpi attraverso vari tipi di abbigliamento. Lo ‘scontro’ si realizza quando il purdah è esportato e applicato alle donne nate e cresciute in Gran Bretagna, paese in cui l’emancipazione femminile ha origini lontane.
Se la memoria collettiva dell’opinione pubblica conservasse il passato, non vi sarebbe stupore nell’analizzare le problematiche di genere connesse alla conservazione del ruolo della donna nella societa. Si pensi solo al trattato di Mary Wollostonecraft, A Vindication of the Rights of Woman (1792), in cui la madre delle suffragette inglesi scriveva: «i principi guida su cui si sviluppano tutte le mie disquisizioni renderebbero superfluo dilungarsi sull’argomento, se quell’attenzione costante a mantenere fresca e in impeccabile la vernice della reputazione non venisse inculcata come somma totale del dovere femminile, e se le norme che regolano il comportamento e preservano la fama non sostituissero così frequentemente i doveri morali. Ma per quanto riguarda la reputazione, l’attenzione si limita a una singola virtù: la castità» (Wollostonecraft, 2008 : 99). La Wollostonecraft parlando di reputazione e castità traduce con termini occidentali quello che precedentemente si è definito purdah. La difesa della castità e purezza spiega perché determinate violazioni di diritti coinvolgono le donne in percentuali maggiori. Secondo dati raccolti dal governo britannico, per esempio, solo il 14% dei maschi è vittima di coercizioni matrimoniali da parte della famiglia. Al maschio, figlio di immigrati, infatti, è concessa maggiore libertà e un più ampio margine di entrare in contatto con la cultura contaminante, poiché si è certi del fatto che un uomo, in ogni caso, avrà a cuore il legame con la famiglia nel momento in cui decida di pianificare il futuro affettivo.
Interessante analisi è operata, a tal proposito, da Ken Loach in Ae Fond Kiss, che offre spunto per analizzare i fenomeni integrazione e immigrazione da angolature diverse, dipingendo anche molto criticamente la società britannica, a volte troppo emancipata a volte troppo puritana. Il film narra la storia d’amore tra un ragazzo nato a Glasgow di origini pakistane, Casim Khan, e una ragazza irlandese, Roisin Hanlon. La vita di Casim si svolge tra le aspirazioni personali di Dj e le tradizioni e gli obblighi derivanti dai legami con la sua famiglia e la sua comunità. Roisin è professoressa di musica in una scuola cattolica, frequentata da Tahara, sorella minore di Casim. La storia inizia con l’incontro tra i due, tra due vite opposte: l’occidente e l’oriente, la libertà e il dovere. Casim, infatti, è promesso sposo di sua cugina Jasmine (che vive in Pakistan) e fino al momento dell’incontro con Roisin non aveva mai avuto alcun dubbio che la scelta dei suoi genitori fosse la migliore per lui. Roisin è separata e insegna in una scuola cattolica gestita da un provveditorato integralista che rappresenta il contraltare del fondamentalismo musulmano.
L’amore tra i due nasce con estrema facilità, la diversità culturale sembra argomento da manuale rispetto alla realtà dei loro sentimenti, ma con la felicità del loro amore inizia la sofferenza per i due e per la famiglia di Casim. Il ragazzo annulla il matrimonio con la cugina, va via di casa ed è ospitato da un amico, Hamid, che convive da sette anni con la propria fidanzata, un’occidentale, e che racconta alla famiglia di vivere con amici e consiglia a Casim di avere tutte le donne goree, donne bianche, che vuole, ma di non tradire la sua famiglia. Al fine di dimostrare la vergogna delle famiglie rispetto alla contaminazione dei costumi è utile analizzare un passaggio del film: Rukhsana, sorella maggiore di Casim, incontra Roisin per cercare di convincerla a lasciare il fratello e per spiegarle le ragioni per cui avrebbe dovuto farlo: «‘il motivo per il quale ho deciso di incontrati e può darsi che per te sia molto strano, ma io sento davvero il bisogno di parlarti per via di tutto quello che sta succedendo nella mia famiglia. Il fatto che Casim sia andato via di casa e stia vivendo con te, ha influito in modo negativo sulla nostra famiglia, sulla nostra comunità, la vergogna si è abbattuta su di noi. Noi abbiamo un codice che chiamiamo izzat, più o meno corrisponde all’onore familiare e questo è molto importante per la nostra gente. I miei genitori, per tutta la vita, hanno lavorato molto duramente per conservarlo, rispettarlo e si sono guadagnati la stima e la fiducia della comunità e, quello che ha fatto Casim, ha vanificato tutto e non solo. Io non so se Casim te lo ha detto, ma ho incontrato Ahmer grazie alla mia famiglia e ci siamo davvero piaciuti sin dal primo momento, ci vogliamo veramente bene, anche se ci conosciamo da poco tempo, abbiamo sentito la necessità di sposarci, ma a causa di quello che è successo sua madre ci ha chiamato e ha annullato il matrimonio’. ‘Io amo tuo fratello, perché non riuscite ad accettarlo?’ ‘Per quanto tempo lo amerai?’ ‘Io..io non lo so’ ‘E quando lo saprai? Quando tutte le nostre vite saranno distrutte? Ma come puoi non capire quello che sta succedendo? Non riesci a capire che per colpa del tuo “amore” [si usano le virgolette per riprodurre l’ironica enfasi nel tono di Rukhsana N.d.A.] la vita di tutte queste persone verrà annientata? È evidente che non capisci, Roisin te lo chiedo chiaramente, perché non lasci mio fratello? Per favore lascialo!’ ‘No’» (Ae fond kiss, 2004. Trascrizione del dialogo tra Rukhsana e Roisin da 01h16’32’’ a 01h19’01’’).
L’amore è irriso a cospetto della coesione familiare e comunitaria, è demistificato non solo nella sua essenza romantica, ma gli è negata la fiducia di poter resistere al logorio del tempo. Il matrimonio combinato, al contrario, è riconosciuto come collante e simbolo di alleanza tra diverse famiglie. La descrizione dell’incontro tra Rukhsana e il marito sceltole dalla famiglia è paradossale ai nostri occhi: due ragazzi si raccontano vita, studio e lavoro attraverso la narrazione dei loro genitori.
Parlano solo se interpellati, anche se adulti, ma, cosa ancor più incredibile ai nostri occhi, non parlano mai tra di loro. Rukhsana, nel film, rappresenta la continuità, mentre Tahara, sua sorella minore, incarna i problemi e la realtà della seconda generazione. Si ribella al padre per iscriversi all’università da lei prescelta anziché seguire la volontà paterna. Ken Loach sceglie un uomo per lanciare il suo messaggio di speranza di integrazione. La scelta è dettata, probabilmente, dalla necessità di trovare il modo meno impattante per introdurre il suo tema. Un uomo, secondo il Corano, può sposare una non musulmana, una donna, al contrario, avrebbe ‘tradito’ la Legge Sacra. A un uomo è concesso, seppur non apertamente, di avere relazioni extraconiugali e questo tratto maschilista, che riconduce l’analisi alle problematiche di genere, è enfatizzato dal regista che attraverso i suoi personaggi definisce le scappatelle con ‘una bianca’ come mero rapporto sessuale. Loach dimostra che l’emancipazione occidentale è vista con preoccupazione dai genitori delle seconde generazioni anglo-pakistane o anglo-bengalesi, ma che a pagarne le conseguenze peggiori sono le donne, per la funzione collante che rivestono all’interno della società e che, in passato, rivestivano in quella occidentale, come le parole della Wollostonecraft dimostrano.
Ci sono molte differenze tra il modello di vita che si può proporre a una giovane donna in Pakistan e quello che, di fatto, si impone alla stessa se si trova in un paese occidentale. Il solo obbligo d’istruzione scolastica determina una certa emancipazione della donna. Arriviamo alla convinzione che l’imposizione di scelte matrimoniali alle proprie figlie (ma il fenomeno riguarda anche i figli di sesso maschile, in alcuni casi come reazione a casi di omosessualità) non sia un problema di religione ma di cultura, di genere e in molti casi di ottenimento della VISA. Alison Shaw spiega i tentativi di compromesso delle giovani generazioni e la difficoltà da parte dei loro genitori di superare equamente le difficoltà che solo una doppia identità culturale può determinare. I dati della Shaw mostrano un maggiore grado di permissivismo nei confronti dei maschi, non concesso alle ragazze per la preoccupazione che possano assumere atteggiamenti occidentali. «Western women in particular appear to break all the rules of purdah. They are regarded as sexually promiscuous, moving freely from one man to another, behaving and dressing in order to provoke men» (Shaw, 2000 : 176).
All’interno del concetto di forzatura rientrano, quindi, più fattori tra cui spiccano la prospettiva di genere e il ruolo riproduttivo della donna nella comunità, cui si è già accennato. Dati rilevati da ricerche condotte in Gran Bretagna dalla Forced Marriage Unit, unità istituita nel 2005 dal governo britannico, dedicata al contrasto del fenomeno avvalendosi della collaborazione di esperti di vari settori, da operatori sociali a psicologi,medici, esperti legali e organi di polizia, dimostrano che la protezione di quelli che sono percepiti come ideali culturali o religiosi, rende cittadine di nascita inglese e provenienza sub-continentale, vittime di abusi e violenze in nome della tradizione. I genitori, molto frequentemente, non sono consapevoli del gap generazionale che si crea fra la loro e i loro figli per il solo fatto di essere stati educati in un altro paese. I casi registrati dalla FMU ogni anno sono circa 300, ma nel report annuale del 2010 l’unità ha registrato circa 1600 casi sospetti di matrimonio forzato. Si ha, inoltre, il ragionevole dubbio che in totale siano un numero superiore, poiché sono poche le donne che riescono direttamente a denunciare di aver subito tale costrizione.
La maggior parte coinvolge famiglie di provenienza sub-continentale, circa il 65% dei casi si verifica in famiglie di origine pakistana e il 25% bengalese, ma si registrano anche molti casi di ragazze provenienti dal Medio Oriente, dall’Europa e dall’Africa. Un altro aspetto preso in considerazione, da queste ricerche è l’età delle spose, ai matrimoni forzati è associato il fenomeno delle spose bambine, anch’esso tratto comune all’area sub-continentale. La pubertà, secondo il diritto islamico oggi e prima ancora secondo la consuetudine di molte altre culture, determina la maggiore età per la persona, si deve prendere in considerazione una più ampia concezione del tempo femminile «la relazione della donna col tempo ha la forma dei cicli prettamente femminili: cicli mestruali e cicli riproduttivi che iniziano con la bambina non ancora capace di procreare e terminano con la donna ritornata sterile» (El Khayat, 2002 : 36).
L’ordinamento giuridico islamico (tenendo in conto che non esiste un ordinamento giuridico islamico in astratto: i principi della shariya al giorno d’oggi sono sempre mediati, in modo più o meno restrittivo, dalla legislazione civile dei singoli stati) prevede però la possibilità di abbassare ulteriormente l’età per contrarre matrimonio, in virtù del diritto di djabr, potere che consente al padre o al wali, paragonabile alla figura del nostro tutore, di unire in matrimonio indipendentemente dalla volontà degli sposi. Il risultato di questo diritto assoluto del padre sulla figlia è il cosiddetto matrimonio ‘precoce’ che rappresenta forse l’aspetto meno comprensibile all’odierna visione occidentale del concetto di unione matrimoniale, ma anche della stessa tutela dei diritti dell’individuo. Nel caso del maschio, il padre avrà come unico vantaggio a far contrarre un matrimonio precoce a suo figlio, quello di unire la propria famiglia a una di un livello leggermente superiore, anche se tale possibilità potrebbe rivelarsi causa d’impedimento per la donna, poiché è richiesta allo sposo parità di condizione sociale.
In ogni caso il figlio «dal momento in cui diventa pubere potrà liberarsi dal matrimonio con il ripudio. Invece, la figlia non potrà nulla contro la decisione del padre». (Abagnara, 1996: 17). A prova della teoria della derivazione culturale del matrimonio forzato, si riscontra un atteggiamento oppositivo da parte legislatori dei paesi di tradizione islamica, nei confronti di tale prassi. Negli ultimi decenni, infatti, si è cercato di fissare a 15 anni l’età minima per il matrimonio, tentando anche di evitare una sproporzione di età tra i due coniugi. Il matrimonio forzato, indipendentemente dall’età della sposa, è un esercizio arbitrario della violenza da parte di terzi, volto alla coercizione e alla negazione del diritto di autodeterminazione. La narrazione di vicende reali può contribuire, più direttamente, a delineare un quadro concreto e realistico della violenze subite dalle vittime; i dati finora forniti, infatti, non hanno la capacità di comunicare la sofferenza, le umiliazioni e il dolore cui sono soggette principalmente ma non solo le donne.
Si può utilizzare come fonte di narrazione, Belonging, romanzo autobiografico della vita di Sameem Ali, consigliere comunale di Manchester e scrittrice inglese di origine pakistana, che ha deciso di raccontare la sua storia, per sensibilizzare l’opinione pubblica britannica sui matrimoni imposti. Il romanzo offre l’occasione per verificare lo scontro culturale e il gap generazionale: la scrittrice, raccontando la sua vita di bambina anglo-pakistana, conduce l’osservatore esterno a comprendere l’importanza e la necessità della tradizione per le comunità immigrate. Una volta addentratosi all’interno, il lettore avrà la percezione della deriva cui sono soggette le comunità sradicate dal contesto di origine.
L’autrice racconta i suoi primi anni di vita in un orfanotrofio: i genitori, pakistani residenti nel Regno Unito, infatti, erano stati costretti a richiedere l’aiuto dei servizi sociali, poiché non avevano sufficienti mezzi economici per occuparsi di lei, affetta da problemi motori e disfunzione del linguaggio. Sameen Ali definisce questo periodo come il più felice della sua vita, la descrizione non è importante da un punto di vista sentimentale bensì da quello sociologico: il conflitto identitario scaturito da una mancata integrazione delle due culture, nel caso specifico acquisite separatamente, quella inglese nei primi sette anni di vita in orfanotrofio e quella pakistana conseguentemente al ritorno in famiglia, è la chiave di lettura imprescindibile per comprendere il dramma vissuto dall’autrice. I servizi sociali inglesi sono in certo modo corresponsabili, seppure involontariamente, di questa sofferenza, poiché nei sette anni di permanenza nell’orfanotrofio, hanno educato la bambina secondo il modello culturale britannico, portandola in chiesa, dandole settimanalmente la cosiddetta paghetta, simbolo del sistema educativo familiare del paese.
Nella casa famiglia il concetto di multiculturalismo è stato accantonato in virtù di una presunta uguaglianza di comportamento e trattamento. La linea di condotta dei servizi sociali non è comunque la causa dello shock culturale subito da Sameem Ali; è lo scontro tra ‘locale’ e ‘globale’ e l’intrecciarsi di diverse identità ad avere reso “l’io” di “Sam” un amalgama di valori e ideali. L’utilizzo del diminutivo, indicativo dell’influenza culturale inglese subita dall’autrice, per riferirsi alla bimba dell’orfanotrofio e del nome per esteso, vera e propria trasformazione, al rientro nel nucleo familiare, sono indicativi della duplice esistenza di un soggetto spersonalizzato e catalogato in culture differenti. L’autrice narra il rientro in casa, i numerosi abusi subiti dalla famiglia, la sua incapacità di comunicare con loro in punjabi, una lingua a lei sconosciuta, racconta di come la obbligassero a svolgere tutte le faccende domestiche e soprattutto di come le fu negato di vivere l’infanzia e l’adolescenza delle coetanee britanniche.
Un’altra difficoltà è rappresentata dall’abbigliamento: Sam indossa abiti ‘inglesi’, mentre le sue sorelle abiti ‘pakistani’; il suo vestire diversamente non le permette di essere riconosciuta. L’abbigliamento è uno strumento di riconoscimento e di appartenenza. Dalle grandi culture, alle diverse religioni fino alle sub-culture metropolitane, rappresenta un immaginario recinto; nel caso dell’autrice cambiare modo di vestire ha rappresentato l’iniziazione alla sua famiglia, alla sua cultura e alle sue origini, un ‘rito di passaggio’ percepito come shock culturale. La parte più interessante dell’autobiografia è la narrazione del viaggio in Pakistan, in cui si narra il matrimonio forzato a 13 anni con uno sconosciuto del doppio della sua età, che, la prima notte di nozze, le “fece strane cose” che lei, troppo piccola, non era in grado di comprendere. Nessuno, per altro, aveva informato la ragazza sul giorno in cui sarebbe avvenuta la cerimonia: a differenza della sorella maggiore, Tara, che ebbe un matrimonio combinato in un’età più avanzata, Sameem non ricevette le stesse attenzioni da parte della madre.
Non si organizzò alcuna festa, non le comprarono un vestito nuovo e non le donarono i gioielli che solitamente ricoprono la sposa il giorno del suo matrimonio: «I couldn’t be getting married, not today. I wasn’t wearing any make-up or jewellery, and I had on were old clothes that didn’t fit properly» (Ali, 2008 : 134). Scoprì una mattina che di lì a poco sarebbe diventata la moglie di Afzal, fu vestita con un logoro abito usato e introdotta al Molvi1), «‘Hello daughter,’ he said in a soft, mumbly voice. ‘Just repeat everything I say.’ And then he started speaking in Arabic, in such a low voice I had trouble hearing him. […] Mother came into the room and said, ‘It’s time for you to leave, now. You’re to go with your husband’s family to your new home.’ My husband? My knees started to shake […]. She just grabbed my arm and pulled me to the doorway. She pointed the Uncle Akbar, ‘That is your father now, and that is your husband,’ she said as she gestured to one of his sons […]. No, no! I thought. This can’t be true! I’m in a nightmare!» (Ali, 2008 : 134).
Dopo il matrimonio Sameem rimase in casa di Afzal per qualche mese; l’autrice stessa ammette che suo marito la trattava meglio di quanto sua madre avesse fatto in tutta la vita, ma non poteva fare a meno di sentirsi prigioniera. Il senso di imprigionamento la spinge a tentare il suicidio ripetutamente, fino ad accorgersi, quasi con triste ironia, che anche la morte la rifiutava. Sameem non è consapevole che per formalizzare il suo matrimonio e per tornare in Gran Bretagna sarebbe dovuta ‘solo’ rimanere incinta. Il giorno in cui sua madre si accorse che ciò era accaduto, prenotò il volo di ritorno verso casa. La triste storia di questa bambina, ormai quattordicenne, continua tra le mura domestiche, tra abusi e violenze, fisiche e psicologiche.
L’autrice enfatizza il senso di inconsapevolezza descrivendo il momento in cui scopre di essere incinta; tornata a casa viene informata dall’altra sorella, Mena, della gravidanza della loro cognata: «[…] Saber told me Tanvir’s expecting.’ ‘So am I,’ I quickly replied. Mena stared at me for a second and then said, ‘You can’t be! You’re only fourteen! You’re not allowed to have a baby until you’re at least sixteen.’ Having a baby? Was that what hamila meant? I was going to have a baby? […] I burst into tears» (Ali, 2008 : 155-156). Sam subisce, inoltre, l’umiliazione della giustificazione della sua gravidanza data da sua madre al medico generico: «‘I took her to Pakistan, and she went out and slept with a boy one night. That’s how she got pregnant doctor.’ I caught my breath and bit my lower lip. But I didn’t dare call her a liar.» (Ali, 2008 : 159). Nonostante tutto, però anche in quell’occasione, la forza coesiva del gruppo rappresentato dalla famiglia, le impedì di ribellarsi e di svelare il ‘segreto’ della violenza subita. Sameem un po’ per paura, ma soprattutto per aver imparato che i fatti privati interessano esclusivamente la ‘famiglia’, pur avendo la possibilità di liberarsi, non tradisce, comportamento ampiamente riscontrato in tutti i fatti di violenza domestica. Si percepisce la sensazione dell’abuso subito, che costringe le adolescenti a diventare donne e che procura un’inguaribile frattura con il mondo esterno, quello dei coetanei inglesi.
La capacità di guardare i coetanei e di non considerarli come un ‘loro’ lontano, ma come un possibile ‘noi’, è forse una delle possibilità di reazione che i giovani hanno per opporsi alla violenza esercitata su di essi. Il romanzo non rappresenta una condanna della gente del Pakistan, né tantomeno della loro religione e cultura, è un invito a riflettere sugli errori che spesso la paura e la mancanza di istruzione portano a commettere. Ali sottolinea più volte che non giudica il matrimonio combinato di per sé, ma accusa e condanna le violenze e gli abusi subiti da quelle ragazze che non accordano il consenso alla scelta dei propri genitori. Si deve inoltre precisare che il parlamento islamico-britannico, istituzione non governativa che si occupa delle tematiche e delle campagne concernenti la comunità islamica britannica, denuncia e depreca tali comportamenti e auspica un’educazione sia religiosa sia sociale che possa portare la comunità a superare alcuni retaggi culturali delle terre d’origine.
Se da un lato è vero che le vittime di abusi domestici di questo tipo sono sottoposte a sevizie di ogni genere, dall’altro è necessario ribadire che la violenza avviene per il solo fatto di non essere riconosciute come parte integrante del gruppo. L’influenza della cultura britannica sulle adolescenti le rende in posizione di outsider rispetto alla comunità. La madre di Sameem Ali, simbolo di una mancata integrazione che non deve essere generalizzata, rifiuta la figlia non in quanto non voluta, ma come figlia non riconosciuta. Il legame con il gruppo prevale sul rapporto da individuo a individuo, anche se a unirli è il legame di sangue, il rifiuto di valori condivisi da tutti equivale all’autoesclusione e questa posizione di svantaggio è aggravata dal fatto che il rifiuto venga da una donna. Dati desunti dalle maggiori testate britanniche evidenziano situazioni in cui sono principalmente le donne ad accanirsi contro altre donne; madri che, invece di mostrare la cosiddetta ‘gender solidarity’, aggrediscono le figlie perché diverse, senza comprendere che il gap generazionale, aggravato dalla doppia identità culturale delle seconde generazioni, vissuta non come opportunità ma come calamità, rende il codice linguistico-comportamentale delle giovani quasi incomprensibile alle madri. Il cambiamento è interpretato come un tradimento della tradizione, del continuum che si instaura tra la madre e «la figlia [che] ricomincia inesorabilmente quello che ha fatto sua madre, il suo modello, la compagna di tutta la sua vita. In effetti la madre è presente al momento del parto, nei primi momenti dell’allevamento e dell’educazione dei figli, specie se la figlia si è sposata in età molto, troppo tenera» (El Khayat, 2002 :51).
Un rifiuto ‘bilaterale’: madre e figlia non si riconoscono poiché i loro codici di comunicazione passano attraverso canali tra loro estranei. La madre rifiuta la bambina non per qualche ragione particolare, ma esclusivamente perché non ha le caratteristiche del gruppo. Le ragazze dovrebbero voler rivivere le esperienze delle loro madri, ma come spesso accade nelle fasi di transizione, alcune accettano e altre rifiutano di conformarsi al gruppo. La spaccatura si crea soprattutto in età scolare: il confronto con gli altri studenti, la divisa della scuola, a volte vietata alle ragazze musulmane dai genitori più intransigenti, determina quella spaccatura e quel senso di non appartenenza che è fortemente contrastato dai genitori. Sebbene la storia personale di Sameem Ali sia estremamente violenta e non debba essere considerata modello esemplare di scontro generazionale, sono molti gli aspetti interessanti per delineare la difficoltà di attuare processi di integrazione pacifici e bilaterali., fronteggia una situazione di difficile gestione attraverso una pluralità di approcci: se da un lato la classe politica britannica ha recentemente ammesso il fallimento del multiculturalismo, non si può negare l’impegno, almeno teorico, di assicurare ai cittadini stranieri la libertà di conservare abiti e costumi, laddove essi non confliggano con l’ordinamento giuridico interno.
Il matrimonio forzato, non può essere considerato pratica accettabile dai legislatori britannici poiché in esso sono negati diritti fondamentali sanciti dai trattati e dalle convenzioni internazionali. A tal proposito il Regno Unito si è dimostrato particolarmente sensibile, traducendo anche in legge interna, attraverso lo Human Rights Act (1998), i precetti stabiliti dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Uomo. Sebbene esistesse, quindi, una piattaforma legislativa contrastante azioni coercitive sugli esseri umani, nel 2007 il governo britannico, con eccezione della Scozia, ha ritenuto di emanare norme ad hoc in difesa delle vittime di matrimonio forzato.
Il Parlamento ha a lungo dibattuto la proposta di Lord Lester di Herne Hill: The Forced Marriage (Civil Protection) Act. La legge, passata il 13 giugno 2007 nella House of Lords, è stata approvata dalla House of Commons il 17 luglio e ha ricevuto infine il royal assent il 26 luglio, è stata inserita, dopo la Part 4 del Family Law Act (1996), come Part 4A. La finalità è quella di garantire protezione e tutela degli individui minacciati di matrimonio forzato e di istituire una disciplina specifica per ampliare i poteri dei tribunali, che fino all’emanazione di tale normativa disponevano solo di quelli conferiti loro dal Domestic Violence, Crime and Victims Act (2004). La legge consente al tribunale di mettere sotto protezione sia la persona minacciata di matrimonio forzato sia quella che ne è stata vittima; sono consentite, inoltre, restrizioni quali la confisca del passaporto per impedire che la persona venga rapita e portata all’estero. La legge consente al giudice di autorizzare la polizia ad arrestare l’imputato anche senza mandato se questi ha violato le condizioni stabilite dal Forced Marriage Protection Order (FMPO).
Il Forced Marriage (Civil Protection) Act è il primo passo giuridicamente efficace nel fronteggiare i casi di matrimoni imposti. L’obiettivo non è discriminare le comunità stanziate bensì di tutelare la cittadinanza intendendo sottolineare che qualunque individuo nato sul suolo britannico abbia diritto sia alla ‘doppia identità’ culturale, ma anche e soprattutto alla possibilità di autodeterminazione. Dal 27 novembre 2008, inoltre, è stata innalzata da 18 a 21 anni l’età minima per inoltrare la domanda per il cosiddetto marriage visa, tentavivo atto a contrastare i matrimoni finalizzati all’ottenimento della cittadinanza britannica da parte di un cittadino straniero, provvedimento che però ha suscitato critiche di legittimità in ambito di diritti dell’individuo, poiché sono violati nel momento in cui il soggetto decidesse di contrarre matrimonio autonomamente.
La Gran Bretagna continua a sostenere e incoraggiare l’integrazione, nonostante la difficoltà di produrre coesione culturale attraverso la sola convivenza geografica e sociale. La ragione che ha determinato l’istituzione della FMU e che sta portando alla nascita di progetti finanziati dall’Unione Europea, è quello di sensibilizzare sia la popolazione sia le autorità facenti capo alle comunità immigrate, su questa grave forma di violenza di genere. L’obiettivo delle unità dedicate a tale impegno è quello di formare figure professionali preposte alla difesa delle vittime di matrimonio forzato. La collaborazione di operatori sociali, insegnanti e agenti di polizia migliorano i risultati poiché permettono un approccio multi-prospettico del problema. Contrastare la tratta di esseri umani, i crimini d’onore e i matrimoni forzati è obbligo morale imposto dalle battaglie occidentali per l’ottenimento dei diritti delle donne, mantenendo salda la volontà di integrare culture diverse senza introdurre gerarchie basate su presunte superiorità valoriali.
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