La democrazia paritaria ha “bucato” l’informazione: la forte richiesta e la protesta delle associazioni femminili, alleate a un ampio e trasversale fronte di deputate e senatrici, è riuscita a imporsi all’attenzione dei media. Perché è riuscita a fare notizia, a creare un inciampo nell’iter della legge elettorale. Merito soprattutto delle parlamentari, sostenute – va però detto – da una fortissima pressione che è venuta dal basso, da quante si sono mobilitate per far sì che la questione di genere acquisisse centralità nella riforma della legge elettorale.
Ma è bene non farsi illusioni. Guardiamo ai dati dell’Osservatorio di Pavia sul monitoraggio 2013 commissionato dalla Rai per verificare il rispetto delle pari opportunità e analizzare quanto l’immagine femminile, nelle trasmissioni dell’azienda pubblica, corrisponda a una rappresentazione delle donne reale e non stereotipata.
Le donne continuano a essere sotto rappresentate: fanno poco notizia, sono poco intervistate come esperte e portavoce, e tra i politici la loro presenza è molto minore in tv rispetto alla loro rappresentanza parlamentare (14% contro il 30% in Camera e Senato).
Il monitoraggio ha riguardato due settimane campione, dal 12 al 18 maggio 2013 e dal 6 al 18 ottobre 2013, e sono stati valutati tutti i programmi (eccetto pubblicità, dirette sportive e film) trasmessi da Raiuno, Raidue e Raitre, dalle 15 all’una del giorno successivo.
Nella parte riguardante i programmi di informazione e approfondimento si registra una presenza femminile pari al 52,2% fra i professionisti impiegati all’interno dei programmi e visibili in video (46,1% alla conduzione e 53,2% fra i giornalisti). Mentre scende di molto la presenza femminile ‘esterna’: fra le persone che fanno notizia, intervistate, ospiti e così via, le donne sono solo il 26%. In particolare fra le 2031 persone presenti nei programmi che fanno notizia, solo il 22% è di sesso femminile. Le donne sono poco numerose anche fra i portavoce di associazioni, enti, istituzioni e partiti (18,2%) e fra gli esperti (21,4%) intervistati o ospiti dei programmi di informazione e approfondimento.
E’ più elevata la presenza femminile fra le testimonianze o narrazioni di esperienze private, personali e le voci dell’opinione popolare: rispettivamente 36,5% e 45,8%. Dal monitoraggio risulta anche che il Tg più femminile è il Tg1 con il 54,3% di presenza femminile interna e il 23,9% di presenza esterna; il Tg più maschile è invece il Tg2, con il 43,7% di presenza femminile interna e il 18,5% di presenza esterna, mentre nel Tg3 c’è il maggior divario fra presenze femminili interne ed esterne, 68,4% contro il 17,7%.
Peccato che la presidente Tarantola, nella due giorni del convegno “Donne è”, non abbia fornito i dati sulle carriere delle donne in Rai: che le giornaliste stiano in video, in modo più o meno paritario, non basta. E’ l’effetto vetrina che, in questo caso, paga. Ma in che percentuale le giornaliste Rai ricoprono ruoli dirigenziali che consentono loro di incidere davvero sul prodotto? Manca un elemento fondamentale e utile alla nostra riflessione: si incide davvero quando si ha potere? Si fa la differenza? Un obbligo di legge, per altro, la rilevazione sulle carriere interne, che la Rai non ottempera e che i sindacati interni dovrebbero esigere.
La rappresentazione corretta dell’immagine delle donne, la loro presenza paritaria tra gli esperti e gli intervistati, da parte del servizio pubblico, è certamente un obiettivo da perseguire. Come l’uso di un linguaggio declinato al femminile, che non oscuri la differenza, e una corretta narrazione del femminicidio. Ma non a questo possiamo ridurre le nostre richieste al servizio pubblico in vista del rinnovo della Concessione nel 2016. Vogliamo di più: che al centro della missione del servizio pubblico ci sia l’obiettivo di far fare all’Italia quel salto culturale necessario per diventare un paese per donne e per uomini. Un Paese da unire, come fu nel dopoguerra quello dei profondi divari culturali, di classe e geografici, a cui la Rai volse la sua missione. Oggi il divario è di genere. E produce violenza, sfruttamento, costi sociali ed economici intollerabili. Limita la libertà delle donne. Ed è questa la riflessione da porre al centro della riforma del servizio pubblico.
Senza di questo, avremmo solo aggiustamenti, miglioramenti, progressioni percentuali per aumentare la voce e la presenza delle donne monitorate dall’Osservatorio di Pavia. Non il messaggio forte, potente, trasversale a tutta la programmazione, di cui abbiamo bisogno perché si ottenga finalmente in Italia quella piena cittadinanza che ancora è negata alle donne. E siamo noi, le donne, le uniche forse che possono farsi carico di questa radicale riforma del servizio pubblico. Perché siamo noi le più interessate a un cambiamento vero e profondo, non a semplici maquillages.